La Nuova Sardegna

Nuoro

 

Morto a Orune Peppino Campana, fu uno dei fuorilegge più temuti  

di Piero Mannironi
Morto a Orune Peppino Campana, fu uno dei fuorilegge più temuti  

Aveva 87 anni. Aveva scontato 34 anni per due omicidi ed era stato accusato di tre sequestri

22 gennaio 2013
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Si sono celebrati ieri mattina a Orune i funerali di Peppino Campana, considerato uno dei banditi sardi più pericolosi degli anni Sessanta. Aveva 85 anni. Il ministero degli Interni aveva messo sulla sua testa una taglia da 10 milioni di lire così come era stato fatto per altri esponenti di punta del banditismo di allora: Graziano Mesina, Pasquale Stochino, Ciriaco Calvisi, Miguel Atienza. Venne catturato nel 1971 nelle campagne del paese dopo una lunga latitanza. Era accusato di aver ucciso un suo compaesano e un carabiniere.

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di Piero Mannironi

La sua fine, in un giorno grigio e freddo di gennaio, è stata coerente con la sua vita e con il suo modo di essere. Peppino Campana, pastore e bandito, forse anche un po' un mito, si è infatti spento in silenzio. Aveva sempre fatto della discrezione e della solitudine quasi una ragione di vita. La notizia della sua morte si è diffusa infatti dopo i funerali. Solo la “sua” Orune sapeva. E, come aveva fatto molte volte quando era considerato uno dei banditi sardi più pericolosi, anche oggi il suo paese lo ha protetto col silenzio.

Diceva di lui l'ispettore Antonio Serra, implacabile e rispettato cacciatore di fuorilegge: «Da latitante era defilatissimo. Solitario. Non se ne sentiva dire granchè». Ed era proprio così. Perché Campana sembrò essere stato inghiottito da un buio abisso di silenzio, quando sparì nei boschi della Barbagia nel gennaio del 1965, perché accusato di avere ucciso un cugino di 22 anni, Ignazio Chessa, durante una festa. Per quel delitto fu condannato a 22 anni di carcere.

Era una stagione terribile di violenza, quella. Anni nei quali il banditismo sardo era considerato un'emergenza nazionale. E diventò umiliante per tutti i sardi l'anacronismo di affiggere sui muri i volti del banditi più pericolosi con sotto la taglia. Il volto di Peppino Campana comparve così a fianco a quello di Graziano Mesina: 10 milioni di lire per la sua cattura. Ma, pur se uniti nello stesso destino, i due erano l'uno l'antitesi dell'altro. Mesina era ribelle e un po' guascone, amava le sfide e si compiaceva della sua fama che in quegli anni confusi e furenti si trasformava in mito. In qualche modo apparteneva ai “tempi nuovi”, alla società dell'immagine e diventava punto di riferimento di un ribellismo infantile e semplificatorio.

Campana era invece lo stereotipo della tradizione. L'uomo “ruttu in disgrassia” che si rifugiava nei monti e scivolava come un fantasma in una vita segreta. Non disturbava il paese con la sua scomoda presenza. E il paese lo ricambiava con una sorta di benevolenza non detta, con una discrezione che gli aveva consentito di vivere vicino a sua moglie Cecilia e ad avere da lei sei figli, dei quali quattro concepiti durante la latitanza. Insomma, Mesina era popolare, mentre Campana era carismatico. Il suo avvocato, Bruno Bagedda, lo definiva «il più straordinario uomo dei boschi che abbia mai conosciuto». Riconoscendogli così una lucidità e un'intelligenza fuori dal comune. E così dovevano pensarla anche al ministero dell’Interno perché nelle loro schede informative ritenevano Campana più pericoloso di Mesina.

Nel novembre del 1970, il giudice istruttore del tribunale di Nuoro emise un mandato di cattura che lo accusava di avere ucciso in un conflitto a fuoco vicino a Orune, l'8 febbraio del 1966, il brigadiere dei carabinieri Giuseppe Piu.

Poi arrivarono le accuse di aver partecipato a una serie di sequestri di persona. Si parlò infatti di lui per i rapimenti degli ozieresi Giovanni Campus e Nino Petretto, avvenuti nel marzo del 1968. E il suo nome circolò insistentemente anche per il sequestro dell'ingegnere di Olbia Francesco Palazzini, avvenuto nel maggio del 1966.

Campana ruppe la sua proverbiale riservatezza solo quando nel mondo investigativo qualcuno cominciò a sospettarlo del sequestro di Maria Assunta Gardu Calamida, avvenuto nelle campagne di Oliena il 29 settembre del 1970. Il bandito inviò ambasciatori molto discreti alla signora Gardu Calamida per farle sapere di non essere assolutamente coinvolto nel rapimento. E proprio in quella circostanza fece dire a uno dei suoi emissari la famosa frase: «Un latitante è un coperchio buono per tutte le pentole».

L’avventura di bandito di Peppino Campana si concluse all’alba del 2 giugno del 1971 in un ovile vicino a Orune, in una zona chiamata Tichineddu. “Rubino” aveva 38 anni. Quel giorno si era alzato intorno alle cinque del mattino per la mungitura delle pecore. Aiutava infatti così il pastore che lo ospitava e lo nascondeva. Nascoste dietro ai macchioni c’erano tre pattuglie dei carabinieri che attendevano dalle tre del mattino. Campana si accorse della presenza dei militari e tentò una disperata fuga lanciandosi in una scarpata tenendo in pugno una pistola calibro 7,65. Troppo tardi. Un carabiniere puntò la carabina e fece fuoco. Un proiettile colpì Peppino Campana alla spalla. Il bandito cadde a terra e si trovò subito circondato. Allora gridò: «Non uccidetemi, sono ferito. Vi prego, portatemi in ospedale». Era la fine della sua carriera di bandito, ma il suo carisma di “balente” restò intatto.

Nel mondo delle campagne, si sa, lo scetticismo è una regola antica. E così la versione ufficiale della cattura di “Rubino” venne messa in qualche modo in discussione. Che fosse stato tradito da una “soffiata” era pacifico. Come era pacifico che il confidente non potesse essere di Orune. Come una nebbia velenosa cominciò a diffondersi il sospetto che Campana, ormai stanco della rischiosa vita del latitante, stesse trattando con la polizia la sua costituzione. Si fece addirittura una cifra: 100 milioni. Una trattativa che dava molto fastidio ai carabinieri perché nel curriculum criminale di “Rubino” c’era la morte del brigadiere Piu. Perciò, si dice, i carabinieri decisero di passare all’azione e catturare il bandito prima della sua resa.

Tra gli uomini che parteciparono all’operazione a Tichineddu, c’erano due ufficiali dei quali si parlerà molto negli anni successivi. Uno era il tenente Gianfranco Siazzu, gallurese, che diventerà comandante generale dell’Arma. L’altro era il capitano Francesco Delfino, calabrese, uomo ambizioso e brillante che diventerà generale alla fine di un’irresistibile carriera, ma sul quale gravano anche ombre e sospetti mai chiariti.

Peppino Campana cominciò a scontare la sua pena con il peso dell’ergastolo sulle spalle. Per 34 anni, quanti ne ha trascorso in carcere, è stato definito da tutti i direttori dei penitenziari in cui è stato un detenuto modello. Mai un problema, mai un conflitto, mai una contestazione. Di più: diede anche modo di dimostrare di essere un uomo ancora rispettato e influente nel mondo delle campagne durante il sequestro dell’ex consigliere regionale del Partito repubblicano Peppino Puligheddu, avvenuto nel centro di Nuoro la sera del 3 dicembre 1982. Un magistrato concesse allora un permesso speciale di dieci giorni a Peppino Campana per trovare contatti e canali di dialogo con i banditi. La circostanza emerse in una burrascosa udienza del processo per il rapimento, il 5 luglio del 1985. A parlarne fu lo stesso ex ostaggio.

Ma i retroscena di quel sequestro sono rimasti sepolti nei ricordi dei protagonisti. Peppino Campana riacquistò la libertà nel 2005. Tornò nella sua Orune e si inabissò. Tenendo fede al suo carattere schivo cercò di farsi dimenticare da chi non lo aveva ancora dimenticato.

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