La Nuova Sardegna

Nuoro

L'alpinista nuorese sul tetto del mondo: «A 8000 metri ho pensato: mollo tutto»

di Paolo Merlini
L'alpinista nuorese sul tetto del mondo: «A 8000 metri ho pensato: mollo tutto»

Angelo Lobina, primo sardo ad aver conquistato l'Everest, racconta le ultime fasi della scalata, le difficoltà incontrate e l’annata himalayana segnata da dieci morti

01 giugno 2017
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NUORO. Il tono della voce è quello di sempre, pacato e riflessivo, complici i 50 battiti al minuto che fanno di Angelo Lobina un vero sportivo oltre che un uomo capace di un self control invidiabile. La scelta delle parole è ponderata e precisa, anche quando racconta della spedizione sull’Everest che solo quest’anno è costata la vita a dieci persone.

Il primo sardo a essere salito sul tetto del mondo, gli 8848 della cima dell’Himalaya, ieri mattina ha fatto visita alla redazione della Nuova per raccontare la sua avventura, ma il discorso è inevitabilmente caduto sulla prossima e ultima tappa del progetto che sta portando avanti da due anni, il Seven Summits, cioè la scalata delle vette dei sette continenti.

Molti sardi hanno seguito l’impresa attraverso il sito di Sardegna 7 summit e la pagina facebook dedicata. Nel frattempo arrivavano notizie tragiche su molti scalatori.
«Sì, è stata un’annata davvero funesta. Prima è morto uno dei decani dell’Everest, un alpinista nepalese di 85 anni in perenne competizione con un suo coetaneo giapponese per il record dello scalatore dell’Everest più anziano. È morto al campo base, a poco più 5000 metri, per problemi di acclimatamento. Per lo stesso problema sono morti altri tre alpinisti, mentre l’esperto Ueli Steck è caduto in parete e altri quattro sono morti per le esalazioni di un fornelletto dentro la tenda. Poi c’è stato un morto anche sul versante cinese».

È stato particolarmente faticoso raggiungere la vetta? Ha avuto paura di non farcela?
«A quella quota il fisico viene sottoposto a uno sforzo straordinario. Si sale con l’ossigeno, ma è un contributo comunque parziale. È facile perdere lucidità, e dunque sbagliare, avere momenti di panico. Sì, ho pensato che avrei potuto non farcela, ma sono andato avanti. L’altro problema che abbiamo incontrato è stato un forte vento e temperature rigidissime, oltre i 30 gradi sotto zero. Il vento mi ha ghiacciato il cristallino dell’occhio sinistro, diciamo che non è stato un bel momento. Mi sono spaventato, non mi era successo neppure in Alaska. Sono riuscito a rimediare, per fortuna, tenendo una mano sull’occhio per riscaldarlo. L’altro problema a quella quota è la disidratazione, alla quale corrisponde un addensamento del sangue: bisogna bere molto per rendere il sangue più fluido ed evitare così il congelamento della dita delle mani o dei piedi. A me è andata bene. In precedenza, al campo base, ho avuto problemi di dissenteria per diversi giorni, ho preso antibiotici; ero molto debole e pensavo che non ce l’avrei mai fatta. È successo lo stesso a uno dei miei due compagni italiani che ha dovuto abbandonare. Poi ho trovato dentro di me delle energie che non immaginavo».

Una volta al campo 4, a ottomila metri, com’è andata? Ha mai pensato “mollo tutto” e torno indietro?
«All’inizio ero molto in difficoltà. Ci ho pensato. Non avevo mai affrontato qualcosa di così faticoso. Sono molto abituato alla fatica grazie agli allenamenti, ma ho avuto la sensazione di aver fatto il passo più lungo della gamba».

Anche perché a 55 anni non è esattamente un ragazzo.
«Ahahah, è vero. Ogni tanto devo ricordarmelo».

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