La Nuova Sardegna

Nuoro

Morto in cava, il medico: «Non escludo l’omicidio»

di Valeria Gianoglio
Morto in cava, il medico: «Non escludo l’omicidio»

Tragedia sul lavoro a Orosei, la deposizione di un consulente apre nuovi scenari «La scena è stata alterata. La ferita è compatibile con una pistola ammazza-buoi»

18 aprile 2018
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NUORO. «Nulla di concreto può escludere l’ipotesi delittuosa per maleficio, l’omicidio»: lo aveva già anticipato qualche tempo fa nella sua relazione scritta, ma quando, ieri mattina, l’anatomopatologo Vindice Mingioni lo ha ripetuto e scandito per la prima volta in udienza, al primo piano del Palazzo di giustizia, per un istante, in aula, è sceso il gelo. Il professionista ieri ha deposto davanti al giudice monocratico Teresa Castagna come consulente del pubblico ministero, Alberto Pinna, al processo per la morte del giovane dorgalese, Antonello Mereu, avvenuta in una cava di marmo di Orosei il 13 marzo del 2014.

Il giovane era stato trovato poco prima delle 7 del mattino dentro la cava, steso a terra, a qualche metro da un blocco di marmo. All’inizio, stando a quanto era stato raccolto sul luogo dell’incidente, sembrava che il giovane fosse caduto e avesse sbattuto la testa, probabilmente mentre era intento a tagliare un blocco di marmo. Ma poi, con il passare dei giorni e i nuovi elementi raccolti alla Procura era emerso in modo chiaro che le cose non fossero andate esattamente in quei termini e che anzi vi fossero precise responsabilità sul fronte della sicurezza nel cantiere da parte dei datori di lavoro di Mereu e proprietari della cava. Stando ai primi accertamenti, la morte di Mereu poteva essere stata provocata da un violento colpo inferto da una verga uncinata che sembra che venisse utilizzata in modo improprio per sveltire il lavoro e avvicinare i blocchi di marmo d a intagliare.

E così, alla fine, la Procura ha chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio, con l’accusa di omicidio colposo, del capo della cava, Antonio Monne, di Orosei (che nel frattempo è deceduto), del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, Sergio Floris, di Cagliari, del titolare della ditta, Giovanni Mele, di Dorgali, e del direttore dei lavori, Ignazio Masala. Secondo l’accusa, i quattro, a vario titolo, non avevano fatto nulla per rilevare e segnalare la situazione di rischio. Per l’anatomopatologo Mingioni, che su incarico della Procura, a suo tempo aveva eseguito il sopralluogo nella cava e l’autopsia sul corpo di Mereu, «l’ipotesi che a causare la morte, la ferita penetrante cranio-encefalica, sia stata una verga, è possibile ma in merito nutro qualche riserva perché c’è una discordanza tra il forame cranico e il diametro della verga. Quando ho fatto il sopralluogo, poi, verga non ce n’era, mancava anche il cappellino. Per farla breve: lo stato dei luoghi è stato alterato». Poi, rivolto al giudice, il consulente del pm lo dice dal cuore: «Glielo dico sinceramente – ripete – stavo pensando a un omicidio e stavo cercando piccozze o cose del genere. Dopo che ho visto la ferita nel cranio, ho pensato a un proiettile d’arma da fuoco. L’ho escluso alla fine solo perché all’interno non ho trovato proiettile. Ma quella ferita, per conto mio, può averla provocata una piccozza o una pistola spara-buoi. Una cosa è certa: quelle lesioni, al cranio e alla mandibola, insieme a quella polmonare legata al sangue inalato, non sono compatibili con una caduta. Quella lesione sembra proprio che sia stata provocata da un’arma.». «L’ipotesi verga? – risponde Mingioni al pm – non la posso escludere, ma allora qualcuno quella verga deve averla estratta perché da sola non è uscita. Il caso, insomma, è molto difficile».

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