La Nuova Sardegna

Nuoro

Bitti, l’ultima lezione di Dure «Partecipare e condividere»

di Diego Asproni
Bitti, l’ultima lezione di Dure «Partecipare e condividere»

Come fermare l’emorragia continua che ormai da anni sta svuotando i paesi della Sardegna Da un’antica leggenda alla realtà odierna: «È necessario che ognuno porti avanti piccoli progetti»

19 luglio 2018
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Era dal 1323 che il regno di Arborea resisteva con le armi all’invasione Aragonese. Alla guerra seguivano brevi periodi di pace. Molti paesi, bruciati per rappresaglia dai soldati aragonesi, erano stati abbandonati. Altri erano scomparsi, dopo che gli abitanti erano stati decimati dalla peste. Nel 1388, i majorales del villaggio di Dure, assieme ai majorales di Bitti, Gorofai e Onanì, e tutti gli altri villaggi di Arborea, firmarono la pace con il re di Aragona. Ma la guerra e la carestia non cessavano.

Finita la guerra, lentamente Dure venne abbandonato. Per sempre. Dell’antico paese, oggi rimangono le sue cinque chiese, restaurate nei secoli dalle famiglie di Bitti.

Ma perché proprio Dure scompare? Perché la stessa sorte non tocca ad Onanì o a Gorofai, o a Bitti? Cosa può essere accaduto di tanto grave da condannare Dure all’estinzione?

C’è una leggenda, ripetuta a tutti i bambini in tutte le famiglie, che descrive Dure e i duresi. Si racconta che Nostra Sennora, povera e scalza, avesse bussato alle porte dei duresi, chiedendo lievito per preparare il pane. Ma tutte le porte erano state richiuse in malo modo, e Nostra Sennora era andata via sconsolata. Allora Babbu Mannu punì il villaggio e abbandonò gli abitanti al loro triste destino. Per la verità, le leggende sono più di una, ma tutte insistono nella mancanza di cuore dei duresi. Una leggenda rimane una leggenda, eppure, qualcosa di vero accade in Sardegna tra il 1300 e il 1500.

Una grave epidemia di peste, una guerra lunga quasi 100 anni e le nuove tasse da pagare ai feudatari catalani e castigliani che indeboliscono i sardi, con i paesi e le campagne che si impoveriscono. Nel volgere breve di due secoli, circa 400, forse 600 villaggi scompaiono. Le poche comunità che resistono, sono ridotte ad un numero minimo di abitanti.

Nei momenti di grave crisi (malattie, guerre, carestie), gli uomini hanno imparato a difendersi, rimanendo uniti e aiutandosi l’uno con l’altro. Forse Dure e i duresi avevano dimenticato questo grande insegnamento. Infatti, quando i bittesi parlano del destino di questo villaggio, tutti sottolineano quale fosse stato il loro errore: «S’ana negatu sa matriche», «Hanno rifiutato il lievito per il pane ai vicini».

In una parola: i duresi avevano rinunciato ad aiutare i paesani in difficoltà. Cioè, era venuto meno il principio alla base di ogni comunità civile: l’aiuto reciproco.

Perché racconto questo?

A cosa ci può servire una leggenda, e i resti di quello che fu un paese vivo 500 anni fa? A non fare gli stessi errori, per esempio. Oggi, è il nostro paese a vivere la parabola di Dure. Ogni anno Bitti perde un numero importante di abitanti. Questo fenomeno noi lo conosciamo bene, si chiama spopolamento. Ne abbiamo una percezione visiva osservando le case vuote, abbandonate e cadenti. Lo conoscono bene le nostre famiglie, costrette a salutare i figli e i nipoti in partenza in altri luoghi. È nelle nostre preoccupazioni, presenti e proiettate nel futuro. Come si può fare finta di niente! Ci rendiamo conto che è difficile invertire questo destino. Anche altre parti del mondo vivono quello che vivono i nostri territori.

Popoli interi abbandonano i luoghi dove sono nati, dove sono cresciuti, dove hanno studiato. Sono spinti dalla guerra, dalle carestie, dai cambiamenti del clima, dalle politiche coloniali che li impoveriscono. Come arginare questa emorragia che ci toglie le forze migliori? Cosa fare per resistere a questa lenta agonìa? Ci sono cose che devono essere fatte nei centri di governo regionale, statale ed europeo. Ci sono cose che devono essere fatte da noi, nei paesi in via di spopolamento. Per nostra sfortuna, da molto tempo, le scelte dei governi regionali favoriscono la fuga dai paesi dell’interno verso le coste e le città. Come se, chi governa e amministra questa regione, avesse già deciso di abbandonare i paesi in perdita di abitanti al loro destino. Fino a quando chi governa sottovaluterà questo problema, lo spopolamento peserà solo sulle nostre spalle.

Questo peso si aggraverà oppure si allenterà, in base alle scelte che noi abitanti dei paesi interessati saremo capaci di fare.

Io non ho una soluzione.

Forse nessuno di noi da solo, ha una soluzione. Però è chiaro che se il problema è nostro, allora, noi dobbiamo affrontarlo. Come? Venerdì scorso, all’assemblea organizzata dal Gruppo parrocchiale di Bitti, Bachisio Bandinu, Mauro Gargiulo, Gianni Marilotti e Bustianu Cumpostu suggerivano di iniziare a studiare per trovare soluzioni. Soluzioni che almeno possano rallentare la perdita di abitanti. Studiare dunque, capire quanto accade alle nostre comunità. Anche io penso che sia questa la via da percorrere. Ma per fare questo dobbiamo incontrarci, accettare di collaborare.

È necessario che ognuno possa portare proposte e possa essere ascoltato. È importante ascoltare gli altri, lavorare lentamente. Inventare e costruire piccoli progetti, adatti al paese, che possano essere realizzati, anche con l’aiuto esterno, se necessario. Il paese ha risorse umane, intelligenza e voglia di presenziare alle scelte importanti. La risposta unitaria e solidale espressa nei giorni dell’alluvione del 2013 e la grande partecipazione in questi mesi, alle assemblee popolari sul tema dell’eolico, sono dimostrazioni di alta civiltà.

È necessario allora valorizzare questo desiderio di partecipare. Soprattutto, pensare di lavorare alla realizzazione di un disegno comune. Con idee e progetti personali, ma dentro un disegno per la comunità. Non abbiamo altra scelta. Lo spopolamento non è un fenomeno passeggero, di pochi anni. L’abbandono dei paesi in difficoltà è iniziato ormai da almeno 60 anni. Pensare di contrastare questo abbandono lavorando da soli, o in gruppi contrapposti o in competizione è un errore. Non abbiamo scelta; eppure davanti a questa emergenza non siamo pronti. Il mio paese è diviso. Spaccato a metà. Questo ho capito, la sera dell’assemblea dedicata al tema dello spopolamento. Ma, il mio paese è diventato come Dure?

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