La Nuova Sardegna

Olbia

Prigionieri del campo «A una famiglia rom non affittano le case»

di Serena Lullia
Prigionieri del campo «A una famiglia rom non affittano le case»

Semir, con la moglie e i figli cerca un’abitazione da 2 anni Ha un lavoro ed è integrato: «Aiutateci a cambiare vita»

03 ottobre 2019
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OLBIA. Oltre il muraglione di rifiuti e indifferenza che circonda il campo rom c’è l’altra metà della storia. Persone, vite, sogni. E a volte serve coraggio per raccontarla. Semir lo ha trovato pensando al futuro dei suoi figli. 41 anni, nato e cresciuto a Olbia. Titolare di una piccola impresa regolare che raccoglie e smaltisce ferro. Olbiese, come lui stesso si considera. Con lui c’è Sanela, 38 anni, sua moglie da 19, originaria della Bosnia. Cinque figli, studenti alle medie e superiori cittadine. Tutti prigionieri a Sa Corroncedda. Intrappolati tra rifiuti, stereotipi e diffidenza, in una vita che non gli appartiene. Semir ha un sogno di libertà per i suoi figli. Liberi dalla vita nomade, dai pregiudizi, dalla paura. La famiglia Beganovic da due anni cerca un appartamento. Ma nessuno in città è disposto ad affittarglielo. Inutile nascondersi dietro il linguaggio politically correct. La società vuole i rom tutti uguali. Brutti, sporchi e delinquenti. Un alibi facile facile per sbattere in faccia la porta a Semir e sua moglie. Anche se sono perfettamente integrati. Parlano benissimo italiano. I figli hanno l’accento olbiese e olbiesi sono anche le loro ragazze. E hanno quei requisiti minimi per sottoscrivere un contratto d’affitto. «Siamo olbiesi anche noi – dice con orgoglio Semir –. Io lavoro e posso pagare un affitto. Cerchiamo casa da due anni. Il Comune ci sta dando un supporto, ma nonostante ciò non riusciamo a trovare un’abitazione. Il mattino l’appartamento è disponibile, la sera non lo è più. Il motivo è solo uno. Siamo zingari». Semir è arrivato al campo di Sa Corroncedda tanto tempo fa. Per dieci anni ha vissuto in un appartamento a Loiri Porto San Paolo. «Allora ero assunto regolarmente in una impresa di raccolta e smaltimento rifiuti. La stessa in cui aveva lavorato mio padre. Poi ho perso il lavoro e non potevo più permettermi di pagare l’affitto. Ho presentato domanda per entrare al campo nomadi e siamo venuti qui. A Loiri Porto San Paolo sono stato benissimo. Tutti mi conoscevano e la comunità mi voleva bene». Semir mostra la casetta in muratura che gli venne assegnata dal Comune. La numero 19. Due stanzette da letto in cui dorme con la moglie e i cinque figli. Le pareti celesti sono scrostate dal tempo in alcuni punti. Una sala con un tavolo al centro e un divano. Un fornellino con la bombola a vista è la cucina. Tutto pulito e in ordine. Merito di Sanela che si divide tra la cura della casa e qualche lavoretto saltuario. Da luglio vivono senza luce e acqua. Un gruppo elettrogeno è la salvezza contro il buio. L’acqua viene conservata dentro dei boiler da mille litri sistemati nel piazzale. Gliela regalano gli amici dal cuore buono. Per tutta l’estate l’assenza dell’acqua calda non si è fatta sentire troppo. Ma il freddo è ormai alle porte. «Ci teniamo che i nostri figli vadano a scuola puliti e in ordine – aggiunge Semir –. Ed è prima di tutto per loro che vogliamo andare via dal campo. Per il loro futuro. Non vogliamo che le loro vite siano come le nostre. Vanno a scuola, sono integrati, frequentano le palestre, escono con i ragazzi del posto. Sono olbiesi, meritano di vivere come i loro amici. Qui non c’è igiene, non c’è sicurezza. Noi siamo i primi che al campo non vogliamo stare. Ma siamo costretti a restare qui. E non vogliamo andare a vivere in roulotte in qualche terreno di campagna come hanno fatto altri». La famiglia Beganovic è una delle cinque rimaste a Sa Corroncedda dopo che il Comune ha deciso di chiuderlo in anticipo rispetto al 2010, data imposta dall’Europa. Ma se la decisione ha contribuito a rafforzare lo spot tanto di moda del “prima gli italiani”, non ha fatto scomparire per incanto le famiglie nomadi. La maggior parte ha comprato dei terreni di campagna e ci ha piantato le roulotte. E mentre nascevano tanti piccoli campi semi-autorizzati, Sa Corroncedda diventava una discarica. Dentro il campo non c’è un angolo libero dalle cataste di rifiuti. C’è anche dell’amianto in cima a una catasta. E basterebbe che qualcuno ci mettesse le mani per capire a chi appartiene quella roba. Perché molti di quei rifiuti hanno nomi e cognomi. «Noi chiediamo agli olbiesi di aiutarci – lancia l’appello Semir –. Dateci la possibilità di cambiare vita. Vi dimostreremo che i rom non sono tutti uguali».

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