La Nuova Sardegna

Università e lavoro, un difficile equilibrio

Tommaso Gazzolo

L'INTERVENTO - Solo una concezione elitaria può snobbare l’esigenza degli studenti di avere sbocchi occupazionali. Ma il sapere non può ridursi a un insieme di “tecniche”

19 settembre 2017
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L’apertura del nuovo anno accademico è occasione per tornare a riflettere sulla “crisi” del sistema universitario, intendendo, con tale espressione, tutta quella serie di trasformazioni che Pier Aldo Rovatti ha perfettamente chiarito coniando l’espressione «aziendalizzazione del sapere». All’università si chiede oggi di sapersi “adattare” al mercato del lavoro, offrire agli studenti “sbocchi occupazionali”, proporre “offerte formative” che favoriscano la “specializzazione” delle competenze.

Questa è – nelle sue linee essenziali – la “politica dell’università” che, almeno in Italia, continua a riproporsi a partire dal 2000. Non si può però criticarla semplicemente rivendicando la “purezza” degli studi. Questo perché, oggi, la maggior parte degli studenti si iscrivono all’università per poter trovare un lavoro, e si aspettano che essa fornisca loro un “sapere” che sia immediatamente “spendibile” sul mercato del lavoro. Questo solo fatto è sufficiente, da solo, a travolgere tutte le concezioni “classiche” delle istituzioni accademiche, delle loro discipline, del loro insegnamento.

Sarebbe irresponsabile pensare che l’università non debba tener conto delle ragioni che spingono ancora i giovani a frequentarla, e che non sono più, spesso, ragioni di “studio”, di ricerca, ma essenzialmente lavorative. Solo una concezione elitaria dell’università potrebbe “snobbare” l’esigenza di accompagnare il percorso formativo dello studente sino al suo inserimento nel mercato del lavoro (con tirocini, servizi di Job Placement, etc.). Che piaccia o meno, questa “responsabilità” oggi tuttavia esiste, e l’università non può non farsene carico.

Si tratta, allora, di cercare di capire come – in questa nuova “flessibilità” richiesta all’istituzione accademica – essa possa però svolgere ancora il compito senza il quale essa cessa di esistere: quello di un sapere che non si riduca ad un insieme di “tecniche” (di saper-fare, di abilità, di “qualifiche”). Da questo punto di vista, la visione “economicista” dell’università è essa stessa “antiquata”, perché crede ancora che sia possibile l’università come trasmissione di una sapere “stabilito” (essa ripropone, cioè, ciò che Lacan chiamava il “discorso dell’università”, discorso cioè che trasforma tutto in sapere, in un insieme chiuso e burocratico di conoscenze). L’università continuerà ad esistere solo se saprà svolgere il compito di una incessante critica di se stessa; solo, cioè, se al suo interno saprà lasciar parlare anche un discorso “anti-universitario”, discorso che porta avanti una domanda di conoscenza che non deve trovare mai risposta, che non deve risolversi in un sapere stabilito.

Occorre sempre che il “sapere” universitario fallisca (ossia non si esaurisca in un insieme di conoscenze perfettamente trasmissibile), e che sappia produrre il proprio fallimento (senza questo fallimento, non esiste ricerca). Il processo di “apertura” dell’università verso giovani e meno giovani che non vogliono da essa una “educazione superiore” (che funziona sempre come ideologia), ma rivendicano il loro diritto di uno studio per il lavoro, è del tutto positivo.

L’università deve essere sempre più “flessibile”, «tingersi di nero», pintarse de negro, di «mulatto, d’operaio, di contadino», come diceva Guevara. Deve divenire strumento di emancipazione delle minoranze, il che significa: preparazione ed educazione “al” lavoro, ma insieme, coscienza critica di questa stessa educazione, della necessità ultima dell’emancipazione “dal” lavoro. Questa contraddizione deve rispecchiarsi nell’università: per questo essa non può limitarsi a “impartire” un sapere, ma ad assicurare la critica permanente di quel sapere stesso, senza la quale essa cesserà di esistere.

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