La Nuova Sardegna

Oristano

L’urlo della madre di Matteo: non chiamatela mai più missione di pace

Enrico Carta
L’urlo della madre di Matteo: non chiamatela mai più missione di pace

C'è anche un sardo, il caporalmaggiore della folgore Matteo Mureddu (in foto a destra), nato a Solarussa nell'Oristanese, tra i sei parà morti nell'attentato a Kabul. Matteo avrebbe dovuto sposarsi a giugno del prossimo anno. Il paese in lutto. Un altro giovane dell'Oristanese, un militare di Riola Sardo, fra i quattro soldati italiani rimasti feriti

18 settembre 2009
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SOLARUSSA. Lo aspettavano tra poco più di un mese. Contavano i giorni che mancavano al momento in cui avrebbero di nuovo rivisto il loro Matteo varcare la soglia di casa. Invece, il portoncino marrone ieri mattina si è aperto quando alla porta ha bussato il generale Sandro Santroni, comandante militare della regione Sardegna. A quel punto non c’è stato bisogno di parole. Il padre Augusto e la madre Greca hanno capito che avrebbero avuto indietro una bara al posto del loro ragazzo quando hanno visto la macchina dell’Esercito fermarsi in via Giovanni XXIII. E da quella stessa porta, da quel momento in poi, è stato un silenzioso e composto via vai di parenti, amici di famiglia, autorità e compaesani.

Molte ore dopo, quella porta si aprirà ancora. Dalla casa esce l’onorevole Caterina Pes, deputato oristanese del Partito democratico, e le parole di Greca Mura prendono finalmente una forma meglio definita: «Sono increduli - ha affermato la parlamentare -, la madre è arrabbiata e si chiede perché si continui a chiamare missione di pace quella che in realtà è una guerra». Una frase dura, ma i pensieri nella mente della signora si affollano. Ce n’è uno particolarmente dolce: «Avevamo già due figli grandi e Matteo era nato quasi per farci compagnia». Era il piccolo di casa. Matteo però ieri se n’era andato da qualche ora, dilaniato a 26 anni da un’autobomba. E con lui erano volati via i sogni di altre famiglie. Quelle delle vittime dell’attentato e quelle di chi con Matteo aveva deciso di costruirsi la vita e il futuro. Doveva sposarsi il 13 giugno dell’anno prossimo. Pochi mesi e avrebbe detto «sì» ad Alessandra Fiori, la fidanzata di Oristano che attendeva il suo rientro a Siena, dove anche lei aveva trovato lavoro e viveva. Per stare vicino al suo Matteo, che da sette anni aveva intrapreso la carriera militare e che era di stanza nella città toscana.

La storia in divisa di Matteo Mureddu era iniziata il 26 giugno del 2002. Due anni più tardi era stato abilitato al lancio col paracadute e nel 2005 aveva preso parte alla prima missione all’estero. Per due mesi era stato con la Brigata Folgore nell’ex Jugoslavia, ancora provata dagli anni interminabili di una guerra sanguinosa e brutale. Poi la crisi in Libano e l’Italia si distingue per solerzia nel chiedere l’intervento delle forze multinazionali ed è tra i primi Paesi ad inviare i propri contingenti militari. Matteo Mureddu partecipa all’operazione Leonte dal marzo all’ottobre del 2007, poi fa rientro a casa. In Italia, precedentemente, aveva già preso parte ad altre missioni come l’operazione Domino, da aprile a maggio del 2005.

Tutti compiti importanti e difficili, ma mai come quello nell’Afghanistan di questi mesi. Il caporalmaggiore Matteo Mureddu non ha paura. Ama il suo lavoro e fa di nuovo le valigie. È il 6 di maggio il primo giorno di missione a Kabul, esattamente pochi giorni dopo la partenza del contingente del quale faceva parte il fratello maggiore Stefano (36 anni) anche lui paracadutista ma di stanza a Pisa - è arrivato a Solarussa nella tarda serata di ieri -. Quasi una staffetta, un simbolico segno di continuità, anche se Stefano Mureddu aveva trascorso i giorni della sua missione ad Herat e non a Kabul. Da così lontano Matteo Mureddu non dimentica i suoi cari. Costantemente li chiamava al telefono. L’ultima telefonata è di due giorni fa. Parla con la madre e dice che va tutto bene, poi si immerge di nuovo nel lavoro. Sino a ieri mattina, quando faceva parte del convoglio saltato in aria. Ore di angoscia al diffondersi delle prime notizie, poi l’angoscia si trasforma in dolore silenzioso. I genitori - il padre Augusto è allevatore, la madre Greca Mura gli dà una mano importante e bada alle faccende domestiche - si rinchiudono dietro il portoncino marrone. Abbassano anche le tapparelle e fanno entrare in casa solo i parenti stretti e le autorità.

Provano a portar loro conforto il parroco di Solarussa Gianni Oro e don Gianfranco Murru, oggi sacerdote della parrocchia di Sant’Efisio ad Oristano, ma che a Solarussa ha trascorso gli anni della giovinezza di Matteo Mureddu. È lui il primo a raccontare del dolore che si sta consumando dentro la casa, dove assieme ai genitori c’è anche Cinzia, la sorella di Matteo che appena un mese aveva salutato la nascita della sua bambina.

La festa è durata poco, ora c’è il pianto. «Sono distrutti - racconta don Gianfranco Murru -. E anche per me è un dolore immenso. Conoscevo il ragazzo da tanto e non riesco a capacitarmi di quanto accaduto». È lo stesso don Gianfranco ad accompagnare verso le 17 l’arcivescovo Ignazio Sanna, che celebrerà il funerale ad Oristano la prossima settimana. «Ho trovato davanti a me una famiglia distrutta - ha raccontato monsignor Sanna -, le parole in questo momento servono a poco. La mamma non voleva che andasse in Afghanistan, ma lui era entusiasta». La porta si richiude un’altra volta. Nessuno ha voglia di sorridere, nemmeno guardando il fiocco rosa appeso al portoncino del primo piano, nella casa dove vive la sorella Cinzia che ha appena dato alla luce la nipotina che Matteo attendeva di conoscere al suo rientro. Ieri non era un giorno di gioia.
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