La Nuova Sardegna

Oristano

Dopo 40 anni in fabbrica torna a fare il pastore

Dopo 40 anni in fabbrica torna a fare il pastore

Sedilo, Salvatore Demurtas dopo una vita in tuta blu è tornato alla terra: «In pensione ho rimesso i gambali»

21 gennaio 2013
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SEDILO. Da questo cocuzzolo bucolico di Talèri ai piedi di Sedilo si vedono svettare le due ciminiere-ex cattedrali del cielo di Ottana. A destra il mantello blu di Monte Lochèle, a sinistra Monte Tòlinu, confine con Noragugume. L'unica cattedrale rimasta a lato Tirso è quella stupenda di San Nicola con i suoi basalti bianchi e neri e dove i riti sono quelli religiosi del culto cattolico. Ma non creano reddito. Tutt'attorno - nel pianoro tra Bolotana e Sarule - è rimasta la firma più caratteristica della Media Valle: greggi erranti e belanti. Perché dove la rivoluzione industriale aveva cercato di nascere - e aveva mutato pelle alla Sardegna del malessere - c'è stato il ritorno se non la rivincita della pastorizia. E ogni giorno, tra duecento pecore e distese verdi di erba alta, fra trattori e mungitrici meccaniche, si apre questa geografia e scenografia per uno dei tanti testimoni dei tormentati corsi e ricorsi economici dell'isola dei nuraghi. Si chiama Salvatore Demurtas, di Sedilo, sposato, due figli, 59 anni ben portati, capelli pepe e sale, buon parlatore. "Ho cominciato da ragazzo dietro al gregge, poi la busta paga da operaio della chimica negli anni della promessa rinascita. Quasi quarant'anni in tuta blu. Spenta la fabbrica e arrivato alla pensione ho rimesso i gambali. E sono tornato pastore. A sicut erat".

Un ritorno alla terra, prima volontario, poi imposto da un incidente di cui è rimasto vittima il figlio Luca (ne parliamo a parte, a fondo pagina). Non più il cartellino da timbrare ma la mungitura, il conferimento del latte, tra i cento e i 120 litri al giorno, alla cooperativa San Basilio, con un fuoristrada Nissan o un camioncino Trade. "Quest'anno stanno pagando 75 centesimi al litro, forse arriverà un premio per la qualità. Perché se dovevano essere di prima scelta le fibre e il fiocco poliestere, allo stesso modo dev'essere eccellente il nostro latte. Ed eccellente è. I controlli veterinari sono utili e costanti".

Salvatore Demurtas è uno dei 2730 sardi che fino al 1980 dovevano lo stipendio alla fabbrica nata per cambiare il volto della Sardegna di dentro e debellare violenze primitive e un banditismo sanguinario. Soprattutto nel triangolo che partiva dal Grighine e finiva a Orgosolo, passando per Orune e Dualchi. Oggi sotto quelle due ciminiere con un fil di fumo sono rimasti in meno di cinquecento. E tutti specializzati in precariato. Gli altri? O disoccupazione o pensione anticipata, per i più cassintegrazione a singhiozzo. "Ma mica viviamo meglio. L'industria aveva portato benessere e mutamento sociale: dalla solitudine dell'ovile eravamo passati al dialogo nelle assemblee, nei consigli di fabbrica, avevamo conosciuto l'industria a bocca di famiglia, non all'estero. Operai sì, ma non nelle gelide baracche svizzere o tedesche ma sotto il tetto di casa. Era un altro mondo. E il centro Sardegna era, è cambiato. Oggi invece siamo alla stasi, l'incertezza è totale, non sappiamo quale strada imboccare. La crisi industriale è pesante, si fa sentire, da noi e in tutto il resto dell'Italia. Di che cosa dovre. mmo vivere se tutte le industrie chiudono? Ci si rende conto che un'economia ha bisogno del lavoro manifatturiero? Chiudiamo l'Ilva, chiudiamo Terni, la Fiat, la Richard Ginori, le cartiere, i cantieri navali? Sbaracchiamo la chimica? E di che cosa viviamo? Degli Uffizi e dei Palazzi Ducali? Dei nuraghi e di Pompei? Certo: io ho il mio salvagente nella pastorizia. Ma possiamo tutti ridiventare pastori?".

Quella racconta nelle colline di Sedilo è una delle tante storie di vita di una Sardegna tradita dal sogno industriale e tornata non volentieri alle origini. C'è tornata per costrizione, non per libera scelta. Non solo sotto il Gennargentu ma in tutta l'Isola, dai disastri del Sulcis a quelli di Porto Torres. Certo, è interessante il percorso, o se volete il calvario di questa versatilità obbligata. Ultimo di quattro figli di mamma Adalgisa Ruggiu, da bambino, ancora alle elementari, Salvatore frequenta l'ovile di babbo Giovanni, Coiarbu di soprannome, coda bianca. Compiti e pecore, libri e formaggio da fare, anche mucche e maiali in compagnia dei fratelli. È il 1971. "Vivevamo alla giornata. Compio 18 anni, maggiorenne, pronto per la fabbrica ma senza valigia di cartone da portare oltretirreno. Mio fratello Costantino emigra a Losanna, in edilizia. Angelo si arrangia in paese da camionista. Nasce la chimica. Il 10 luglio - sempre 1971 - cambio vita. A me e ad altri otto di Sedilo arriva una lettera del Consorzio per l'addestramento professionale dei lavoratori per le iniziative industriali Eni nella Media Valle del Tirso. Mi assumono come operaio destinato all'Anic. Categoria terza, 13 mensilità, minimo comprensivo dell'indennità di mensa e dei punti di contingenza lire 91.761, per la contingenza 3.717, una voce da settemila lire detta terzo elemento. Totale 102.478. Lettera firmata dal direttore Roberto Ziletti. Andando fuori sede indennità aggiuntiva di 26 mila lire lorde compreso vitto alloggio e varie. È festa, festa grande in tutte le case degli assunti, come per l'Ardia di San Costantino. E chi mai li aveva visti uno sull'altro dieci biglietti da diecimila lire sicure ogni mese dell'anno, con neve e grandine, sole e vento?".

Salvatore cambia usi e costumi. Smette i vellutini e veste tute di tela blu con marchio di fabbrica del cane a sei zampe. Da Padre Padrone a Mimì metallurgico. Primo corso sotto le Alpi, a Ivrea, alla Chatillon, reparto filatura. Ancora Demurtas in presa diretta: "Passo in d'unu lampu, in un battibaleno, dalle mammelle delle pecore, dalle forbici della tosatura alle strumentazioni elettroniche e pneumatiche. Non più bidoni per il latte ma valvole regolatrici di pressione e di sicurezza. Non più da solo, ma vita di gruppo. Cambiavo io e cambiava l'Italia, il Sud soprattutto. Molte conoscenze, tante parlate, compagni di lavoro simpatici, allegri. Giovani di tutt'Italia destinati alle ciminiere di Pisticci e Gela, Priolo e Porto Marghera, Ottana, Porto Torres, nelle zone dove osavano la virgin nafta, l'acido tereftalico e i polimeri. Il 10 luglio assunto direttamente dall'Eni. Il 2 ottobre 1974 qualifica di strumentista, le nostre officine erano di prima grandezza, eravamo in grado di costruire qualsiasi pezzo, qualunque tipo di sofisticatissima valvola. Nelle officine lavoravamo in 321, tutti con una professionalità elevata. Nel 1975 inizia la crisi. Avevamo lo stipendio sicuro ma la nostra fabbrica era precaria, si viveva alla giornata, la programmazione industriale non c'era, la dirigenza non ascoltava le critiche del consiglio di fabbrica che era di alto livello. È del '75 la prima serrata. Da Sedilo - come adesso sotto Carnevale - eravamo scesi mascherati. Dovevamo scongiurare il rischio di chiusura, chiedevamo nuove tecnologie ma la dirigenza nazionale era sorda. Non ci si rendeva conto di che cosa stava avvenendo a livello mondiale con l'entrata nei mercati dei Paesi asiatici. Occupazioni a raffica, scioperi, Ottana-Ottana-o lotta partigiana, i corsivi di Fortebraccio. Nel 1978 arriviamo a 35 giorni di autogestione. Cambiano le sigle: Anic fibre dal dicembre del 1980 al 1985, poi Enichem fibre, poi Enichem Spa. Ho avuto due buste paga anche dalla Syndial senza sapere perché. Ma la fabbrica era in disarmo, spenta. In mobilità dal 2006, in pensione dal 2010 con 1400 euro".

E di nuovo all'ovile. A su connottu. In compagnia del figlio Luca e della figlia Barbara, 26 anni, ragioniera senza lavoro ("ho fatto due stagioni in una pizzeria di Riola con 900 euro al mese").

Per andare in fabbrica Salvatore si alzava alla 7, per andare all'ovile sveglia alle 3, poi la mungitura, la consegna del latte. Col fratello Giuseppe pensava a un minicaseificio, a comprare un gregge di capre. Ma la caduta da cavallo del figlio Luca blocca tutti i progetti. Resta l'ovile resistente di sempre, le pecore di sempre, i cani che fanno da guardia. Sullo sfondo le ciminiere di Ottana.

Ma la gloria del passato non fuma più.

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