La Nuova Sardegna

Oristano

Migranti, le ferite di corpo e anima curate da un medico sardo

di Giacomo Mameli
Pina Garau
Pina Garau

Pina Garau, 65 anni, di Samugheo: da 15 anni sulle navi soccorre i profughi. L’esperienza nei paesi martoriati dalla guerra, poi la partenza come volontaria

04 settembre 2015
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CAGLIARI. Da quindici anni fa il medico volontario anche nel Sud-Sudan, in quell'angolo d'Africa dove la strage degli innocenti è dramma quotidiano con guerre fratricide, bambine e bambini uccisi, violentati o rapiti e reclutati, con un'intera generazione di giovani che viene distrutta. A luglio è salita volontaria su una nave della Marina italiana, dove in silenzio e nell'anonimato, "con una professionalità e una umanità inimmaginabili” i militari soccorrono in mare i migrantes, i disperati del mondo. Lei è Pina Garau, 65 anni, originaria di Samugheo, chirurgo della scuola del professor Marino Cagetti all'università di Cagliari. Le ultime missioni - con la Fondazione Rava che ha sede a Milano - a bordo della nave Spica, pattugliatore della Marina. Poche settimane fa, in pieno Mediterraneo, il soccorso a 556 eritrei, due etiopi e un libico.

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I drammi. «Avevano trascorso tre mesi d'inferno nelle prigioni di Tripoli, malnutriti, maltrattati. Ho accertato 84 casi di scabbia, c'erano due donne con fratture da armi da fuoco sparate dagli squadroni della morte dell'Isis, un'altra donna scaraventata a terra dal cassone di un camion e piena di lividi e fratture. È una tragedia che si rinnova quasi ogni giorno con la politica mondiale incapace di porre un rimedio, di indicare una via d'uscita. È il trionfo della barbarie». Ai progetti di cooperazione internazionale Pina Garau aveva iniziato a collaborare dal 2000 su suggerimento di un collega cagliaritano, Maurizio Rodriguez, medico-cooperante di lungo corso in Etiopia: «Mi aveva consigliato di fare un'esperienza protetta. Il mio battesimo è lo Zimbabwe, all'ospedale intitolato a Luisa Guidotti e diretto da Marilena Pesaresi. Passo due mesi a Mutoko, un'esperienza utilissima perché in quei teatri di guerra occorre sapersi muovere con discrezione. E comincio a inorridire per quale oceano di ingiustizie divida il nostro Occidente da quei mondi e di quanto noi siamo fortunati senza averne peraltro alcun merito».

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Nei paesi martoriati. Scatta un continuo peregrinare fra varie Organizzazioni non governative: tappa in Eritrea e, poco prima della sigla della effimera pace, tre mesi all'ospedale di Tessenei al confine con l'Etiopia. «Mi rendevo conto di un mondo ancora diviso in classi sociali, della misera vita delle persone nei campi profughi dove le condizioni di sussistenza sono molto più che precarie, è la vita primitiva del terzo millennio». E poi il Ciad. E il girone infernale del Darfur, in conflitto dal 2003, sconvolto da lotte intestine, martoriato dalle rivalità fra tribù sedentarie. «Ho lavorato all'ospedale di Goz-Beida, sistemato proprio fra due campi profughi, uno più misero dell'altro. Con la gente bisognosa di tutto. Avrei dovuto prescrivere medicinali ma mi rendevo conto che le vere necessità erano il cibo e l'acqua. Finisco anche a Niala, capitale del Sud-Darfur in Sudan. Qui tocco con mano le insufficienze ma anche le complicità di un certo modo di gestire la politica degli aiuti internazionali. È un peregrinare continuo fra le vere emergenze umanitarie del mondo. Per approdare poi al Medici con l'Africa-Cuamm, il Collegio universitario degli aspiranti maestri missionari, la principale organizzazione italiana che cura la salute delle popolazioni africane. Le tappe Cuamm si chiamano Mozambico e ancora Sud-Sudan per approdare, lo scorso inverno in Sierra Leone, altro avamposto di disperazione sociale».

In mare. L'ultima esperienza sulle navi militari («quanto ho rivisto le mie certezze, io sostanzialmente antimilitarista e anarchica»). La Fondazione Rava la assegna alla Spica, una delle navi italiane dopo Mare Nostrum e Triton. Missioni di due-tre settimane: un equipaggio composto da 72 militari, più otto del Battaglione San Marco. «Io unico medico e unica donna a bordo. Quando non si soccorrono i migranti si sorveglia il tratto di mare assegnato per contrastare la pirateria, controllare i pozzi petroliferi, soccorrere i pescherecci e vigilare sull'inquinamento. Anche quando non ci sono i migranti a bordo - e il ponte diventa un hangar pieno di umanità e sofferenze - i nostri marinai lavorano come matti, instancabili, ma soprattutto orgogliosi delle mansioni che svolgono. Quando assistono i migranti sono impareggiabili, disponibili 24 ore su 24, dolci e affettuosi con donne e bambini, professionali con tutti. È il volto dell'Italia migliore che la politica neanche sa di governare. Perché emergono le personalità dei singoli non le direttive ministeriali».

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Il domani. La prossima missione? «Ora sono in Sardegna per qualche settimana di riposo. Ma ho davanti a me gli occhi e le ossa di chi vive nelle carestie, dei profughi che trovano muri, filo spinato e stragi in mare, di poveracci che cercano di attraversare un confine in cerca di libertà e cibo. Mi chiedo sempre: che meriti ho, io, per vivere nell'agiatezza dell'Occidente, lontano dalle guerre fratricide, da altri eccidi di cui nessuno parla? Fino a quando potrà durare questo mondo così diverso da una parte all'altra dell'Equatore? Quando sento certe reazioni, europee o italiane poco importa, inorridisco». Che consiglio darebbe ai nostri politici? «Di passare un mese, ma per capire basterebbero anche tre giorni, a bordo delle navi dei disperati».

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