La Nuova Sardegna

Oristano

Quel sorriso che aiuta i malati

di Michela Cuccu
Quel sorriso che aiuta i malati

Ogni giorno in ospedale le persone ricoverate possono contare sui volontari dell’associazione Avo

28 ottobre 2018
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ORISTANO. Sono lì, magari accanto al letto di un malato. Indossano il camice ma non sono né medici né infermieri. Non somministrano farmaci e nemmeno li prescrivono: il loro compito è quello di lenire la solitudine che è condizione, purtroppo spesso obbligata, di chi è ricoverato in ospedale. Succede al San Martino, dove da undici anni, i volontari dell’Associazione volontari ospedalieri garantiscono una presenza costante e discreta.

Ci sono sempre: in corsia alla mattina, durante i pasti, ma anche la sera. Per sei ore al giorno li si trova all’ingresso dell’ospedale a svolgere un altro ruolo importante: aiutare il pubblico ad orientarsi fra corridoi, androni e porte. Per chi ha difficoltà a camminare, mettono a disposizione delle carrozzine. È un servizio che svolgono gratis, da volontari appunto, ma non per questo, privi di preparazione. «Prima di diventare operativo, chiunque di noi deve seguire dei corsi e fare un tirocinio che, per cento ore, ci vede affiancati dai soci più anziani che trasmettono la loro esperienza. Solo terminato questo percorso, il volontario Avo può entrare in corsia».

Lo spiega Sergio Locci, da due mandati consecutivi presidente dell’associazione che conta su 63 soci che a breve potrebbero raddoppiare. Il 26 settembre è iniziato il sesto corso base per aspiranti volontari ospedalieri che consiste in undici incontri con medici e infermieri dell’Assl, ma anche con psicologi e avvocati, che serve per imparare a essere di supporto ai pazienti senza mai invadere il campo degli operatori sanitari dell’ospedale. Fare il volontario ospedaliero comporta il rispetto di regole e soprattutto l’attitudine a svolgere un’attività così importante quanto delicata.

«In tantissimi si propongono come volontari Avo – dice ancora Sergio Locci –. Per quest’ultimo corso, ad esempio, le candidature sono state 110: ne abbiamo ammessi quaranta, dopo un’attenta selezione per verificare se i candidati avessero le caratteristiche per essere di supporto ad un malato, cosa che non è mai cosa semplice». Poi precisa: «Molto spesso chi ha avuto esperienze drammatiche di familiari ricoverati in ospedale, ci chiede di inserirlo fra i nostri ranghi. Pur apprezzando la buona volontà siamo costretti a respingere la proposta. Il rischio che non possiamo correre è che, invece di assistere il paziente, il volontario riviva situazioni dolorose che ha già affrontato».

La giornata tipo del volontario Avo inizia proprio in corsia, quando con garbo e riservatezza si avvicina al letto del malato. «Basta un’espressione del viso per capire se siamo graditi o meno. Perché se il paziente preferisce restare da solo, non possiamo forzarlo a sopportare la nostra presenza», dice Sergio Locci. Il volontario può fare tante cose: parlare innanzitutto; fare qualche commissione per chi non si può alzare dal letto; a volte aiutano a consumare i pasti. Spesso l’Avo diventa anche un punto di riferimento per i familiari: gli danno consigli e indicazioni su come comportarsi in un luogo così complesso come l’ospedale. Ci sono state anche situazioni particolari, come il caso di una paziente terminale per la quale i soci dell’Avo si sono quotati affinché potesse rientrare nella sua casa all’estero. Una delle caratteristiche dell’Avo è appunto questa forma di autofinanziamento che si sono dati i soci. «È meglio così – conclude Sergio Locci –. Vogliamo essere indipendenti: solo così ci sentiamo davvero volontari».

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