La Nuova Sardegna

Oristano

Pau, il museo dell’ossidiana gioiello senza confronti

di Michela Cuccu
Pau, il museo dell’ossidiana gioiello senza confronti

Vive solo grazie ai fondi comunali, ma racconta la preistoria di tutta l’Europa

17 novembre 2018
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PAU. L’esclusività è in un ex asilo vescovile di un paesino nel cuore della Marmilla.

Pau, meno di 300 anime nella parte sud orientale della provincia di Oristano, otto anni fa realizzò un museo che ha un solo concorrente al mondo: quello di Takayama, sulle Alpi del Giappone. L’oggetto misterioso che accomuna Pau a Takayana è l’ossidiana.

Il Museo dell’Ossidiana di Pau è una rarità, come è rarissima la pietra cui è dedicato. Gli amministratori di questo minuscolo paese hanno però intuito quanto prezioso sia questo museo e i fondi per farlo funzionare arrivano unicamente dal bilancio comunale, la cui disponibilità è estremamente limitata.

Sono pochissimi i giacimenti di questa pietra (composta sino a due terzi da silicio) che si forma solo quando la lava viene eruttata da un vulcano. Il vetro vulcanico si raffredda all’istante e l’ossidiana assume la sua originaria forma amorfa, tipica del vetro.

In Marmilla esiste l’unico giacimento di ossidiana in Sardegna, uno dei quattro presenti in Italia (gli altri tre sono a Pantelleria, Lipari e Palmarola). Nera, lucida, fragile e tagliente, proprio come il vetro di cui condivide la composizione, l’ossidiana ha scandito la vita degli uomini del Neolitico, fino a quando, con la scoperta del bronzo, venne messa quasi definitivamente da parte.

Quasi, perché ancora prima dell’avvento del laser in chirurgia, le lame dei bisturi più sottili erano fatte di questa pietra, rara e misteriosa. È solo una delle tante scoperte che si possono fare visitando le quattro grandi sale del museo che si trova al centro del paese, di fronte alla chiesa parrocchiale e al municipio. Due archeologhe e una guida (è lo staff dell’Associazione Menabò con sede a Capoterra che gestisce la struttura) accompagnano i visitatori attraverso le due sezioni del museo. Si inizia dalla parte geologica, con le vetrine che espongono l’ossidiana non lavorata in campioni provenienti da tutto il mondo, fra i quali, spicca quella sudamericana: incolore perché composta per il 98 per cento da silicio. «L’ossidiana era utilizzata in tutto il mondo – spiegano Giulia Balzano e Maria Cristina Ciccone, le due archeologhe del museo – gli aztechi, ad esempio erano abilissimi nella sua lavorazione». È infatti nella sezione archeologica che, fra vetrine illuminatissime e zeppe di reperti, che inizia il racconto della lavorazione della pietra ma anche della sua diffusione.

In fondo alla sala, un modello su scala di piroga preistorica, serve a spiegare che l’ossidiana del Monte Arci ha fatto il giro del Mediterraneo e forse anche dell’Europa.

Veniva infatti caricata sulle piroghe che, condotte a forza di remi, dalla costa settentrionale della Sardegna, attraversate le Bocche di Bonifacio, arrivavano in Toscana, in Francia e Spagna per essere trasformate in punte di freccia e lame taglienti.

Sul Monte Arci c’erano le officine a cielo aperto. A Sa Scala Crobina (perché nera, come le ali dei corvi), nei boschi di Pau, si cammina su un pavimento nero degli scarti di lavorazione del minerale. Ma attenzione: non sono semplici frammenti di pietra ma preziosissimi reperti archeologici.

È vietatissimo raccoglierli, come è vietata l’estrazione dell’ossidiana. Purtroppo non tutti i comuni del Monte Arci hanno adottato l’ordinanza che vieta di raccoglierla. E così l’ossidiana sarda si riduce ogni giorno.

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