La Nuova Sardegna

Oristano

Storie di “Turcus e morus” alle pendici del Monte Arci

di Michela Cuccu
Storie di “Turcus e morus” alle pendici del Monte Arci

Gonnostramatza, alla scoperta di un’affascinante esposizione multimediale

24 novembre 2018
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GONNOSTRAMATZA. A riceverere i visitatori c’è niente di meno che Barbarossa. Da un grande monitor con la cornice dorata, il più temibile dei pirati che per mille anni imperversarono nel Mediterraneo, inizia a raccontarsi. Nelle altre sale, attendono di fare altrettanto Solimano il Magnifico, ma anche Andrea Doria e l’imperatore Carlo V. Nell’ex Monte granatico di Gonnostramatza si posso fare gli incontri più inaspettati. In questa bella struttura di pietra, perfettamente restaurata, che sorge al centro del paese, proprio accanto alla chiesa parrocchiale, c’è infatti uno dei musei più insoliti e unico nel suo genere, interamente dedicato alle incursioni barbaresche. Il Museo si chiama Turcus e Morus, come appunto i sardi indicavano quei pirati che, per quasi dieci secoli, senza soluzione di continuità, compirono razzie nell’isola, distruggendo interi villaggi e vendendo come schiavi gli abitanti. La prima cosa da capire è come mai, in questo paesino della Marmilla, sul versante più meridionale della provincia di Oristano, così lontano dalla costa e dunque, mai nemmeno lambito dai barbari, sia stato deciso dedicare un museo a Barbarossa. Tutto ha inizio una quarantina di anni fa, quando, un operaio impegnato nei lavori di restauro della chiesa campestre dedicata a San Paolo, ultima traccia del villaggio di Serzela, cancellato più di due secoli prima da peste e carestia, trova, abbandonata per terra, un’iscrizione. Quando i tecnici della Soprintendenza di Cagliari analizzano l’epigrafe, si rendono immediatamente conto di aver per le mani un documento straordinario: «il cinque di aprile del 1515 il villaggio di Uras è stato distrutto dal pirata Barbarossa».

È da questa iscrizione, ignorata per secoli e attribuita ad un uomo di chiesa, probabilmente all’unico scampato alla distruzione di Uras e che aveva trovato rifugio a Serzela, che può iniziare la ricostruzione di una parte di storia sarda tanto sconosciuta quanto drammatica. Gli storici riescono a ricostruire il percorso seguito dai predoni che, partiti dalle coste dell’Africa Settentrionale, avevano raggiunto Uras risalendo il rio Mogoro, dopo aver attraversato lo stagno di Sassu, all’epoca navigabile.

Gli amministratori di Gonnostramatza intuiscono immediatamente di aver fra le mani un reperto importantissimo e con il supporto degli storici Barbara Fois e Giorgio Pellegrini, realizzano il primo, e fino ad oggi unico, museo dedicato alle incursioni barbaresche. Un museo senza reperti, ma multimediale: con monitor, sagome e i costumi dell’epoca riprodotti alla perfezione, ricostruiscono la storia di razzie e battaglie, ma anche i sistemi di fortificazione che a partire dal dominio spagnolo fino ai Savoia, videro realizzare lungo le coste della Sardegna più di cento torri, molte delle quali, ancora esistenti. «Turcus e Morus racconta anche il destino dei prigionieri: uomini e donne che deportati in Africa, venivano rinchiusi nei luoghi di detenzione, fra cui i terribili “bagni” di Tunisi, in attesa di essere venduti come schiavi, a volte scambiati con prigionieri nordafricani che, a loro volta, venivano deportati in Italia come schiavi», spiega Federica Frau, una delle guide della cooperativa “Serzela”, composta esclusivamente da donne di Gonnostramatza che, da qualche anno, ha in gestione il museo che oggi è meta di turisti, scolaresche ma anche di universitari e stagisti che arrivano appositamente per far conoscenza con i pirati del Mediterraneo.

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