La Nuova Sardegna

A caccia di bronzetti su Internet

Francesco Bellu
A caccia di bronzetti su Internet

Tante offerte di «pezzi autentici», ma anche molti rischi

30 marzo 2009
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SASSARI. Un viaggio in piena regola ma di sola andata, con soste in località spesso esotiche e tappe finali che vanno dai musei britannici a quelli americani alle gallerie d’arte. Mentre l’inizio del tour per il mondo è quasi sempre lo stesso: l’Italia. Il ritrovamento casuale qualche settimana fa di un bronzetto nuragico del IX-VIII secolo a.C., messo all’asta alla mostra mondiale del commercio d’arte Telaf di Maastricht in Olanda, ha rimesso sotto i riflettori un mercato che non conosce recessione.

Certo il compratore corre dei rischi: di acquistare, o un oggetto che è arrivato in maniera illecita alla casa d’aste, o una patacca clamorosa. E nel caso del commercio dei bronzetti nuragici il numero dei falsi è notevole. Anche se su internet le case d’aste assicurano autenticità e legalità, con tanto di schede di garanzia. Basta fare una richiesta via mail, la risposta arriva subito, gentile ma vaga, con promesse di sconti per chi acquisterà più oggetti. Non è il caso del bronzetto messo all’asta in Olanda, la cui autenticità è stata confermata dai carabinieri del nucleo di tutela per i beni culturali di Sassari, che verificheranno se è stato portato via in maniera legale o meno. Ma gli esempi contrari non mancano.

Il caso più eclatante si verificò agli inizi degli anni Ottanta, quando durante una mostra sulla preistoria e protostoria della Sardegna a Karlsruhe, in Germania, furono esposti numerosi bronzetti provenienti da collezioni private. Buona parte risultarono essere dei falsi clamorosi. Ben pochi gli autentici, e tra quei pochi vale ricordare un pendente con una doppia protome di ariete che era stato trafugato dall’Antiquarium Arborense di Oristano nella seconda metà degli anni Sessanta e che “magicamente” era ricomparso alla mostra vent’anni dopo. Insomma spesso il cammino dei falsi si intreccia con quello del mercato clandestino, mischiando ancora di più le acque.

Se aggiungiamo Internet, dove puoi vedere i pezzi solo per fotografia, queste acque si fanno ancora più mosse. Per esempio una galleria statunitense con una filiale a Londra, la Royal Athena, propone ai suoi potenziali acquirenti ben sei bronzetti sardi: un arciere, quattro colombelle, un arpista, un cervo, un bue, una mucca (?) e una figurina in terracotta di cui non si capisce granché. I prezzi vanno dai 55mila dollari dell’arciere ai circa 2mila della statuina in terracotta. Abbiamo interpellato la galleria fingendoci possibili acquirenti: hanno garantito che sono pezzi autentici, comprati seguendo leggi rigorose. La casa d’aste peraltro ha credenziali di tutto rispetto: ha venduto a musei come il Metropolitan di New York, il Louvre, il British Museum e segue codici deontologici precisi.

Allora ci si può fidare? Alcuni docenti dell’Università di Sassari dopo aver esaminato i materiali su internet pensano che siano “tarocchi” ben costruiti. In breve siamo punto e a capo: in un vicolo cieco. Non aiutano le informazioni nelle schede di presentazione: descrizione sommaria, datazione non sempre corretta ed elenco telegrafico delle eventuali collezioni di cui l’oggetto faceva parte. Nel caso del bronzetto messo all’asta a Maastricht si citava un certo Carlos Blacker, amico di Oscar Wilde, e poi sua nipote Thetis. Per alcuni di quelli messi in vendita dalla Royal Athena si parla di generiche collezioni svizzere o nel caso del bronzetto dell’arpista di Charles T. Seltman, uno storico inglese dell’arte classica. Un bel rompicapo che in alcuni casi del passato ha nascosto storie di commerci illegali con tanto di documenti di provenienza e di proprietà creati dal nulla.

L’esempio più famoso non riguarda un bronzetto sardo, ma il cratere di Eufronio (515 a.C.), uno dei capolavori dell’arte greca, comprato per un milione di dollari dal Metropolitan Museum di New York e proveniente dal saccheggio di una tomba etrusca di Cerveteri. Il vaso era stato acquistato dal museo da un mercante d’arte americano, Robert Hecht jr., che aveva dichiarato di averlo comprato da un mercante libanese di origine armena, Dikran Sarrafian: secondo i dati riportati, il vaso sarebbe stato in possesso della sua famiglia sin dal 1920. Peccato che dalle indagini venne fuori che la storia del mercante armeno era una “balla” e che il vaso sia stato in realtà acquistato nel 1972 da Giacomo Medici, mercante d’arte italiano condannato poi nel 2006 per commercio di oggetti d’arte rubati e ora nell’occhio del ciclone per le vendite illegali al Paul Getty Museum di Malibu in Florida.

Il lavoro dei vari nuclei di tutela sparsi nel nostro Paese è davvero difficile. La presenza di più tappe lungo la strada serve a far perdere le tracce a reperti esportati illegalmente, ma anche a dare il tempo di creare un certificato di autenticità per i falsi. Creare una storia credibile, con esperti consenzienti, è un processo lungo che può richiedere anni. Ma come si suol dire “il gioco vale la candela” perché i profitti possono essere molto alti. Nel caso specifico dei bronzetti non è difficile trovare metallo da fondere e spesso si può anche sacrificare un bronzetto autentico, magari in pessimo stato di conservazione: basta non utilizzare leganti moderni come l’arsenico e il gioco è fatto. “L’antica” statuina è pronta a superare anche la più attenta analisi allo spettrografo. Poi ci sono i casi di materiali che circolano da più secoli. L’esempio più

curioso sono le feretrine nuragiche spuntate fuori negli anni Ottanta in una pubblicazione negli Stati Uniti. Con molta probabilità facevano parte di un lotto di reperti, battuto all’asta da Christie’s, di Gaetano Cara, direttore del Regio Museo di Cagliari e abile mercante d’arte oltre che falsario. Il direttore, sotto il falso nome di Olivetti, li aveva portati nella seconda metà dell’Ottocento a Londra nel tentativo di venderli al British Museum, come aveva fatto già altre volte. Ma in questo caso il museo rifiutò e Cara fu quindi costretto a metterli all’asta. Il confronto puntuale fatto con altre feretrine comprate dal museo londinese dal Cara non lasciò dubbi. La strada percorsa per riapparire dopo una sparizione durata un secolo invece sì.

Questa insomma è la posta in gioco di un business in cui il banco (il mercato) sembra vincere quasi sempre, a sprezzo di crisi mondiali e di etica.
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