La Nuova Sardegna

Cicconi non è l’assassino di Luisa: accuse archiviate

di Piero Mannironi
Cicconi non è l’assassino di Luisa: accuse archiviate

Il Gip di Nuoro accoglie le tesi del Pm: la “pista politica” è priva di concretezza e addirittura fuorviante. L’ex assessore: «Per me è la fine di un incubo»

24 luglio 2012
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LULA. Otto anni. Otto lunghissimi anni per arrivare alla conclusione che contro di loro non c'è nulla. Non c’è neppure un indizio che possa annodare il filo del sospetto tra Giampietro Cicconi e Pietro Guiso e l'omicidio di Luisa Manfredi, la figlia 14enne di Matteo Boe e di Laura Manfredi, uccisa da una fucilata la sera del 25 novembre del 2003, a Lula. Il giudice per le indagini preliminari di Nuoro, Silvia Palmas, ha così archiviato il procedimento, accogliendo la richiesta del pubblico ministero che già nel 2006 (e successivamente nel 2010) era arrivato alla conclusione che la cosiddetta “pista politica” del delitto non portava da alcuna parte.

Alla fine, dunque, non resta niente. L’omicidio di Luisa Manfredi, la figlia di uno dei più temuti banditi sardi degli anni Ottanta e Novanta, resta un mistero irrisolto, un delitto senza possibilità di castigo. Le indagini si sono infatti progressivamente sfarinate, perdendosi nel labirinto umano di un paese percorso da rabbie furenti e odii sotterranei, che esplodono in improvvise fiammate di violenza.

Giampietro Cicconi, 61 anni di Cassapalombo in provincia di Macerata, era assessore al Turismo, Commercio e Artigianato nella giunta guidata da Maddalena Calia. Sposato con una lulese, ha un passato da carabiniere ed è impiegato alla Camera di Commercio di Nuoro. Per capire come e perché è stato risucchiato nel gorgo dell’inchiesta sull’omicidio della piccola Luisa Manfredi, è necessario tornare al clima di quegli anni di tensioni inaudite.

Nel 2002 Lula era riuscita a darsi un governo dopo dieci anni di gestione commissariale. Il cuore profondo dal quale aveva origine quella violenza finalizzata ad annientare qualunque tentativo di ripristino delle rappresentanze democratiche, era nelle terre comunali. Un problema delicato e complesso che qualcuno aveva voluto semplificare con la logica brutale delle intimidazioni e delle bombe.

La giunta di centrodestra guidata da Maddalena Calia, giovane avvocato di Forza Italia, nacque con qualche strascico polemico e con molte speranze. Ma il paesaggio umano non era cambiato molto rispetto agli anni della paura e del vuoto amministrativo. E in paese si mise in moto un meccanismo infernale: volantini, manifesti e telefonate. Tutti rigorosamente anonimi. Una semina di veleni che alimentò sospetti e riaccese rancori sopiti. Era cominciata quella che, nelle inchieste anche la magistratura, definì la “stagione dei veleni”.

E dalla violenza delle parole si arrivò presto a quella delle armi. E fu proprio Giampietro Cicconi il primo bersaglio in quella che diventerà un’escalation impressionante di attentati e agguati. Nel luglio del 2002 gli incendiarono l’auto e sistemarono un ordigno esplosivo sotto la finestra della cucina. Fortunatamente la bomba non esplose. La notte tra il 19 e il 20 ottobre del 2003, secondo attentato: otto fucilate furono esplose contro la finestra della camera da letto dell’assessore al Turismo. I pallettoni sfiorarono Cicconi e la moglie. La stessa notte, un pacco bomba fu piazzato davanti all’abitazione di Giovanni Beccu, dirigente di Forza Italia.

Sembrava che l’orologio del tempo fosse tornato indietro, al 1992, quando la politica aveva abbandonato il Comune, arrendendosi alle bombe e alle fucilate.

Poi arrivò quella maledetta sera del 25 novembre 2003. Un uomo, un assassino, è appostato davanti alla casa di Laura Manfredi, la compagna di Matteo Boe, bandito temuto e carismatico, l’unico detenuto a essere riuscito ad evadere dall’isola-fortezza dell’Asinara. Lui, Boe, è in galera dopo una latitanza conclusasi in Corsica nel 1992 esta scontando la condanna per il sequestro di Farouk Kassam. Luisa, la più grande delle sue figlie, esce in balcone per prendere le scarpe: deve andare alla lezione di ballo sardo. La sua grande passione. L’assassino spara. Un colpo solo. I pallettoni si conficcano sulla volta e qualcuno rimbalza, colpendo Luisa. Ferendola a morte.

Le piste investigative sono due: il delitto passionale e la cosiddetta “pista politica”. Corrono parallele e la prima indica come indiziato un giovane amico della vittima, Sebastiano Piras. L’inchiesta finirà con un proscioglimento nel 2007. La “pista politica” si orienta verso l’ambiente della maggioranza in Comune che Laura Manfredi ha sempre osteggiato. È lei stessa a puntare il dito in quella direzione. Cicconi finisce nel mirino degli investigatori perché è l’unico a possedere (legalmente) un fucile da caccia calibro 12 Mossberg-Maverick 88. Cioè un’arma uguale a quella usata dall’assassino. La perizia balistica però dirà quasi subito che quello non è il fucile dal quale è partito il colpo che ha ucciso la piccola Luisa.

Ma il fatto che Cicconi appartenga all’area politica che governa il Comune e sia stato vittima di pesanti intimidazioni, legittima il prosieguo delle indagini su di lui. Viene così accusato di un traffico di fucili tra Lula e Mamoiada e condannato in primo grado, ma assolto con la formula più ampia in appello.

L’avvocato Nicola Satta, che ha difeso in tutti questi anni Cicconi, sollecita così il pm a chiedere l’archiviazione. E il pubblico ministero nel gennaio 2006 scrive: «Pertanto la cosiddetta “pista politica” (ambiguamente caldeggiata dalla Manfredi con scritti, interviste sui giornali, volantini, scritte sui muri) si è rivelata, allo stato, assolutamente priva di concretezza, addirittura fuorviante». Ma Laura Manfredi si oppone per due volte all’archiviazione e le indagini continuano senza approdare ad alcunché.

La sera del 20 marzo 2006 Giampietro Cicconi sfugge a un agguato a pochi chilometri da Lula. L’auto dei killer affianca la sua Citroen e un sicario gli scarica contro un intero caricatore di pistola. Quattro degli otto colpi lo colpiscono, ma lui, sanguinante, riesce ad accelerare e a raggiungere la caserma dei carabinieri di Lula.

Giampietro Cicconi accoglie la notizia dell’archiviazione con una gioia composta. «Mi sento tranquillo – dice – perché io non ho fatto nulla. Io non devo nulla ad alcuno. Magari è il contrario, perché in tutti questi anni io e la mia famiglia abbiamo subìto dolorose ingiustizie. Prima il sospetto e poi un’inchiesta infinita che è andata avanti senza indizi, senza elementi che mi potessero accusare di avere ucciso quella povera ragazza. E poi gli attentati che ho subìto: bombe, fucilate. Hanno anche cercato di ammazzarmi. Ma le indagini su questi episodi non sono approdate a nulla».

Continua Cicconi: «Io, marchigiano, mi sono trovato mio malgrado trascinato dentro una storia che è lontana dalla cultura della mia terra, ma anche lontanissima dal mio modo di sentire e di essere, come dimostra la mia storia personale. Perché proprio io? Penso che tutto nasca dal clima che si era creato in paese. E la madre di Luisa indicava esplicitamente la “pista politica”. In questo contesto forse sono stato colpito perché ero l’anello debole della catena, il più vulnerabile in un certo ambiente. Tutto sarebbe finito molto in fretta, con la perizia balistica sul mio fucile. E qui mi domando: è mai possibile pensare che si usi per uccidere un fucile regolarmente denunciato e regolarmente detenuto in casa? Mi sembra paradossale il solo pensarlo».

«Perché questa brutta storia si è trascinata così a lungo? – dice ancora l’ex assessore –. Perché alle richieste di archiviazione del pm c’e sempre stata un’opposizione da parte della signora Manfredi. Alla fine non si è trovato niente di niente semplicemente perché non c’era niente da trovare. Andarmene da Lula? No, perché? Io ho qui la mia vita e la mia famiglia. Perché devo fuggire se non ho fatto nulla? Anzi, ora attendo giustizia per quello che ho subìto».

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