La Nuova Sardegna

«Il Cinema? Ciò che conta è l’anima di chi guarda»

dall’inviato Fabio Canessa
«Il Cinema? Ciò che conta è l’anima di chi guarda»

Ettore Scola alla Maddalena ribadisce il suo rifiuto a tornare dietro la cinepresa

29 luglio 2012
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LA MADDALENA. Giocando con il titolo di un suo film, forse il suo capolavoro assoluto, si potrebbe dire: "io e il cinema c'eravamo tanto amati". Alla domanda-richiesta di tornare a fare film, che in tanti continuano a fargli, Ettore Scola risponde no. Con fermezza, ma anche grande serenità. Resta la carriera, la filmografia incredibile del regista e sceneggiatore che ha compiuto da poco 81 anni. Opere indimenticabili come "Una giornata particolare", "Brutti, sporchi e cattivi", "La terrazza" e appunto "C'eravamo tanto amati". Solo alcuni dei titoli, i più noti, ricordati anche nell'incontro di ieri mattina a Cala Gavetta con Felice Laudadio. Una sala pienissima già dal precedente incontro con Fabrizio Gifuni curato da Ferruccio Marotti, Fabrizio Deriu e Boris Sollazzo.

Ettore Scola, l'ospite più atteso di questa IX edizione del festival "La valigia dell'attore", si presenta nella sala degli ex magazzini Ilva con una maglietta (sotto la giacca) con una frase che non ha bisogno di spiegazioni: "salviamo Cinecittà".

Maestro, allora gli appassionati di cinema si devono rassegnare? Non torna dietro la macchina da presa?

«No, assolutamente no. La decisione, presa circa sette anni fa, è irreversibile. Ho ritrovato in questo periodo la dimensione del tempo. Quando fai un film non hai tempo per nulla. Io che sono un divoratore di giornali, anche di quotidiani, li dovevo leggere dopo le due di notte. Il cinema purtroppo ha questo, di assolutizzare il tempo, di invadere ogni angolo della propria esistenza. Invece l'uomo è fatto per tante cose, lo vedo adesso. Faccio l'esempio degli studi di cui ero molto fanatico fino a 18-20 anni, poi ho iniziato a fare dei film ed è finita. Ho ritrovato quindi il piacere della lettura, dello studio. Con un unico rammarico: sapere che il tempo a disposizione è scarso».

Cosa pensa della situazione attuale del cinema italiano?

«Mi amareggio qualche volta nel vedere spesso sprecato un grande strumento di crescita culturale com'è il cinema. Perché i momenti sono duri, c'è ovviamente la crisi. Ma questa diventa a un certo punto anche un alibi per non fare o fare solo cose brutte. La prima censura grave è l'autocensura. Seguire progetti più appetibili, per usare un termine antipaticissimo, dal sistema. Progetti che assomigliano a cose già fatte, o che appartengono ad altre culture, magari simili al cinema americano. E anche in quel caso fatte male, perché i mezzi non ci sono. Insomma non si fa quello che il cinema può dare».

C'è comunque qualche autore che le piace?

«Ma sì, ce ne sono tanti. Stare a nominarli è sempre antipatico perché se ne dimenticano altri. Comunque posso dire, a parte i soliti Sorrentino e Garrone ce ne sono diversi: da Marco Risi a Stefano Incerti. O giovani come Andrea Segre, presente qua al festival della Maddalena, che mi pare abbia compreso e capito lo spirito del cinema».

Segre parlava nel suo incontro di cinema che racconta società, coglie i suoi cambiamenti. È questo lo spirito a cui si riferisce?

«Non solo cogliere i cambiamenti, a volte pure precederli. Il cinema italiano quando è stato grande, dal neorealismo in poi, faceva questo. Non solo raccontava la società, dava identità a un popolo, aiutava la crescita democratica del paese. Si pensi a Zavattini, De Sica, Rossellini. Quello che hanno fatto nella coscienza pubblica. Il cinema può in qualche modo cambiare la gente, almeno i pensieri. Cinema vuol dire movimento, ma non sullo schermo. Quello che conta è dentro gli occhi, dentro l'anima di chi guarda».

Con i registi hanno un ruolo importante anche gli interpreti per soffermarsi sul mestiere che viene indagato qui alla "Valigia dell'attore"?

«Gli attori sono autori dei nostri film anche se questa cosa non piace molto ai colleghi registi. Un testo può aumentare se lo dai a un attore. Ma anche diminuire se lo dai a un altro!».

Un attore che sicuramente lo aumentava era Gian Maria Volonté al quale il festival è dedicato. Lei ha diretto in pratica tutti i più grandi, ma non ha mai incrociato Volonté.

«Come attore non c'è mai stata occasione. Ma ci siamo incontrati spesso altrove, per battaglie politiche, nelle associazioni, io degli autori, lui degli attori. Ci frequentavamo e stimavamo. Non è insomma nella galleria di attori che ho diretto, ma con lui ho avuto un forte scambio di idee politiche che con gli altri non c'è stato».

C'è una cosa particolare che chiedeva ai suoi attori sul set?

«Non c'è una cosa. L'attore con cui si lavora bisogna conoscerlo il più profondamente possibile, specialmente quando si tratta di attori che hanno fatto centinaia di film. Perché hanno comunque ancora qualcosa dentro di non espresso. Il regista deve conoscere, capire cosa c'è dentro di loro di inespresso e dedicarsi a quello».

Ha mai avuto rapporti di lavoro difficili con qualcuno dei grandissimi interpreti che ha diretto?

«Rapporti difficili mai. Ho iniziato come sceneggiatore, da quando avevo 15 anni fino a 25 ho sempre scritto per gli altri. Per Risi,Pietrangeli, Zampa, Monicelli. E quindi conoscevo tutti gli attori prima che facessi il regista. Così quando me li sono trovati di fronte come regista tutti mi conoscevano, sapevano quello che avevo fatto, come la pensavo e che potevano fidarsi. Mai avuto alcun problema nemmeno con attori ritenuti più difficili come Sordi o Manfredi».

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