La Nuova Sardegna

«Mio fratello Alberto non si è suicidato»

di Piero Mannironi
«Mio fratello Alberto non si è suicidato»

Parla la sorella del maresciallo Dettori, radarista a Grosseto

04 febbraio 2013
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SASSARI. Non dice mai: «Mio fratello è stato ucciso». Ma è proprio nelle parole non dette e nella determinata affermazione del loro contrario che il tormento nascosto nel cuore per 26 anni diventa un'accusa terribile. Perché la frase detta con serena fermezza «Alberto non si è suicidato» può avere soltanto un senso: qualcuno lo ha ammazzato, simulando la tragica e improbabile commedia di un uomo che si è tolto la vita, vinto dal “vizio assurdo”.

Antonietta Dettori, 67 anni, è la sorella del maresciallo dell’Aviazione militare Mario Alberto Dettori di Pattada, l'uomo che la sera del 27 giugno 1980 era di turno nella sala radar di Poggio Ballone, a Grosseto. È cioè l’uomo che vide tutto quello che accadde nei cieli di Ustica, quando il Dc9 dell'Itavia sparì, aprendo una delle pagine più buie della Repubblica. Anche per il giudice istruttore Rosario Priore, Alberto Dettori era un uomo che non aveva accettato di seppellire nel silenzio la morte di 81 persone in nome di un’improbabile ragion di Stato. Un uomo che aveva capito che qualche volta l'onore e il senso del dovere si possono pagare con la solitudine e con la paura. Fu trovato impiccato a un albero il 30 marzo 1987.

«Sapevo dentro di me – dice Antonietta Dettori – che mio fratello non poteva essersi suicidato. Perché era un uomo solare e aveva un solido equilibrio interiore che gli derivava dall'amore per la sua famiglia, per il suo lavoro e per l'Aeronautica. Quando ci avvertirono della sua morte e andai a Grosseto, capii subito che i miei dubbi avevano un fondamento. Da parte dei militari sentii infatti nei nostri confronti una grande freddezza, quasi ostilità. E poi quelle pressioni sulla moglie perché non chiedesse un'inchiesta sulla morte di Alberto. Per non parlare dell'autopsia non fatta. Ma come, mio fratello era stato trovato impiccato a un albero, a un ramo obiettivamente troppo in alto, e non si è voluto verificare se sulla mani avesse le tracce dell'arrampicata? Fu allora che in me crebbe un tarlo. Pensai che Alberto avesse scoperto qualcosa di scomodo e che qualcuno gliela avesse fatta pagare, ma mai, in quel momento, avrei potuto immaginare un legame con Ustica».

«Ripensai agli ultimi anni – continua -. A come mio fratello fosse improvvisamente cambiato. Era preoccupato, impaurito. Il suo stato di tensione emotiva era peggiorato da quando era tornato dalla Francia, dove aveva seguito un corso di aggiornamento. Poi parlai con mia cognata e la sorella di mia cognata. E loro mi raccontarono di come Alberto fosse tornato a casa molto turbato il giorno dopo la tragedia di Ustica. E soprattutto mi dissero delle sue frasi: “Stanotte è successo un casino, qui finiscono tutti in galera” e “siamo stati a un passo della guerra”.

È da quel momento che Antonietta Dettori cerca di rimettere insieme circostanze e ricordi, legandoli con un nuovo filo logico. E qui, in questo contesto, si inseriranno per esempio alcuni episodi riferiti dalla madre.

«Mia madre mi raccontò che era andata a trovare Alberto a Grosseto – ricorda Antonietta Dettori – e che, mentre si trovavano in auto, mio fratello vide un ufficiale. Si fermò e disse a mia madre: è un mio capitano. Scese dalla macchina e lo raggiunse. Parlò con lui per qualche minuto. Poi, quando tornò nell'auto era nero, demoralizzato, e disse a mia madre: eccone un altro costretto a cedere, ad arrendersi».

Continua Antonietta Dettori: «Sempre mia madre mi raccontò che un giorno, a Pattada, vide Alberto cupo in volto e gli chiese: figlio mio, hai problemi con tua moglie? E lui: ma no, mamma, ma che dici! Mia madre allora gli chiese se avesse bisogno di soldi e Alberto rispose: soldi? Guarda, non basterebbero tutti i soldi del mondo per risolvere questo problema...».

E che il problema fosse legato alla strage di Ustica è provato dal fatto che proprio in quel periodo Alberto Dettori aveva attivato dei contatti con colleghi dei quali si fidava e ai quali cercava di far conoscere il terribile segreto che si portava dentro.

Come fece con il capitano Mario Ciancarella, al quale telefonò e disse: «L’abbiamo tirato giù noi, capitano, siamo stati noi. Non posso fornire documentazione di nulla, qui è un casino, mi fanno fuori».

Poi, in una successiva telefonata Dettori dirà a Ciancarella: «Capitano, lei voleva le documentazioni? Le posso solo suggerire di ricontrollare bene gli orari di atterragio del 27 giugno, e i missili a guida radar a testata inerte. Non mi faccia dire di più».

Ecco, dunque, che cosa agitava il povero Alberto Dettori, quali erano i suoi fantasmi e il dramma che viveva nel suo intimo di uomo per bene . E oggi che la sezione civile della Cassazione ha aperto una breccia nel muro di gomma, cosa spera Antonietta Dettori? «Che venga fatta verità, che venga sancito che mio fratello ha fatto il suo dovere».

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