La Nuova Sardegna

Da Mandas a Belvì, ritorno al passato

di Sandro Macciotta
Da Mandas a Belvì, ritorno al passato

Viaggio sul Trenino verde, quasi una macchina del tempo

05 aprile 2013
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INVIATO A MANDAS. La macchina del tempo esiste, si chiama Trenino verde. Il confine, l'anno zero, passa per Isili, Sarcidano, ultima fermata della linea di servizio pubblico delle Ferrovie della Sardegna da Monserrato, cintura urbana di Cagliari che dista 100 chilometri. Sui marciapiede della stazione una striscia gialla segna il limite di sicurezza per i viaggiatori, come in tutte le fermate nel mondo civile, come se da un momento all’altro dovesse sfrecciare un intercity. A sud ci sono l'oggi, il futuro e il Campidano; a nord l’ardita linea ottocentesca che si inerpica sul Gennargentu, verso il passato, sino a Sorgono nel Mandrolisai. Oltre Isili vanno solo i convogli turistici del Trenino verde. Linee stagionali, su richiesta in bassa stagione, quasi regolari nell'alta.

Pasquetta segna la ripresa dei collegamenti. Si parte da Mandas, stazione prima di Isili, alla biforcazione della ferrovia che porta ad Arbatax, Ogliastra, costa Tirrenica (se si è fortunati 10 ore per 159 km) e quella per Sorgono. Sul muro della stazione una lapide cita David Herbert Lawrence. Sì, è quello de L'amante di Lady Chaterly, scrittore e viaggiatore inglese, autore di Mare e Sardegna, 1921, che paragona l'isola “all'Inghilterra, alle regioni brulle della Cornovaglia o alle alture del Derbyshire". Descrizione più che azzeccata in questa Pasquetta quasi autunnale, da spleen decadente.

Centoventi coraggiosi, convocati per le 8.30 del mattino, partono alle 9.15 per Belvì, paese ai piedi di Aritzo, cuore della Barbagia, tripartita come la Gallia di Cesare e parimenti abitata da “barbari”. Motrice Breda diesel-elettrica e due vagoni Anni 50, sedili di vinylpelle rossa e plafoniere al neon. Tutti i posti sono occupati come su un volo low cost. Cappelliere intasate di zaini, sacche termiche e giacconi. Neanche uno steward che consigli di mettere il bagaglio in eccedenza sotto le panche. Costo del biglietto 21,50 euro a testa, ma sulla carta ne vale la pena.

Poi si scopre che è come viaggiare su un merci: i vetri apparentemente appannati per la calca, in realtà sono incrostati e quasi smerigliati dalla polvere che neanche la pioggia battente riesce a rimuovere. Effetto flou, dicono i fotografi. Il viaggio sarà una lenta marcia in una sorta di nebbia artificiale con buona pace del paesaggio. Dal capotreno e dal bigliettaio non una parola sul percorso, la durata del viaggio o le soste. Un buco nel biglietto e via. E la chiamano linea turistica.

A Laconi, a metà circa del viaggio, l’unica sosta di qualche minuto. Nella sala d'attesa di prima classe c'è una macchinetta per il caffe e qualcuno che lo vende in bicchieri di plastica. È un flash back, una storia a metà tra business e Café express, il film strappalacrime del 1980 di Nanni Loy e Nino Manfredi, venditore abusivo sulla linea Vallo della Lucania-Napoli, profondo Sud.

Il capotreno fischia perentorio la fine della ricreazione. Il macchinista ribadisce l'ordine. I viaggiatori ritemprati dal caffè risalgono mogi mogi sui vagoni e si riparte. Manca più di un'ora per Belvì. Chi spera in una sosta in qualche posto panoramico per una foto resta deluso: il convoglio rallenta sino a fermarsi in tanti passaggi a livello, ma sferraglia dritto davanti a verdi vallate, orridi rocciosi e boschi primordiali, ovattati dai vetri impolverati.

Finalmente Belvì: una pioggia fitta fitta bagna tutto e picchia, come dice la filastrocca, argentina sui tegoli vecchi del tetto, sui bruscoli secchi dell’orto, sul fico e sul moro ornati di gèmmule d’oro. La stazione è sbarrata e i ferrovieri si dileguano.

Un gruppo di viaggiatori affronta subito l'erta che porta al paese e al ristorante dove hanno provvidamente prenotato. Gli altri, sbandati e carichi di zaini, sciamano per le vie in cerca di un rifugio. Qualcuno si addossa ai muri dell'anfiteatro o si infila al riparo del palcoscenico coperto, surreali attori davanti a una platea vuota e bagnata. Dietro le persiane chiuse forse qualcuno ride.

Belvì, 675 anime di montagna, sembra ignorare quei 120 viaggiatori che sono l'avanguardia delle migliaia che arriveranno sino a fine estate ai piedi del Gennargentu. Poi qualcuno alla Pro loco si commuove davanti a famigliole bagnate e coppie che scoppiano, accusandosi reciprocamente su chi ha deciso la gita in trenino: alcuni volonterosi aprono la sala d'attesa della stazione e accendono un fuoco ristoratore nel camino. Questa sì, finalmente, che è ospitalità sarda.

In uno dei due caffè aperti la barista commenta amaramente: “È tre mesi che piove, spesso vado a Sassari e lì c'è il sole. Quando torno qui c'è sempre un nuvolone nero”. Un dejavu, di fantozziana memoria.

Sotto la pioggia e con i negozi chiusi Belvì offre ben poco. C'è un piccolo museo di storia naturale. La mattina ha aperto per i viaggiatori organizzati, nel pomeriggio per quelli fai da te, stremati dalla pioggia e dal freddo.

Il custode, spedito in tutta fretta dal presidente del museo, arriva raffreddatissimo per una rapida visita guidata alle cinque sale piene di animali impagliati, fossili, minerali, conchiglie, rettili sotto formaldeide e uccelli imbalsamati. Etichette rigorosamente calligrafate.Una sorta di raccolta di curiosità sarde e da tutto il mondo dal sapore rinascimentale. Qui l'illuminismo e l'enciclopedismo sembrano non essere mai arrivati.

Mentre la guida spiega i reperti, i turisti si presentano alla spicciolata. E arriva anche una telefonata del presidente che chiede al custode: dove sei? Mi dicono che il museo è chiuso! Il poveretto, sempre più ingolfato dal raffreddore, non trova di meglio che passare il telefonino a un imbarazzato visitatore che attesti la sua buona fede non senza aver spiegato che la porta era socchiusa “perché c'era corrente”.

Ormai si sono fatte le 16.30.

Sulla strada di ritorno sosta al ristorante-caffè letterario. Nella locandina un dibattito con Renato Curcio, relitto degli anni di piombo (come il cielo sopra Belvì) sulla vita in carcere. La pioggia non ha mollato per un solo minuto. È ora di tornare sul treno, rotta per Mandas.

Il diluvio non ha tolto un grammo di polvere dai finestrini e una nuvolaglia bassa imbianca il paesaggio che ora spazia solo per poche decine di metri e spinge i viaggiatori alle confidenze. C’è chi si lamenta per il lavoro che manca, chi se la prende con i politici imbroglioni, chi denuncia le trivelle che minacciano l’Oristanese, chi parla di bambini e scuole. E per corroborare la convivialità saltano fuori un tagliere e un pezzo di pancetta, residuo del pranzo al sacco. Fermata bis a Laconi per il caffè e si riparte per Mandas alla folle velocità di 25 chilometri all'ora. Neanche al ritorno un attimo di sosta al lago di Is Barroccus e alla chiesa di San Sebastiano, in cima a un tacco calcareo che dal 1991 è diventato un’isoletta.

Si arriva in stazione al crepuscolo. Il viaggio in treno è finito. Che peccato e che pessima figura per la Sardegna che vuole aprirsi al turismo.

Salgo in auto e sono di nuovo nel XXI secolo. Accendo il navigatore che mi annuncia: 182 chilometri all'arrivo, ora stimata 22.40. Mi giro verso mia moglie: “Signor Sulu, curvatura 7. Enterprise, si torna a casa”.

Cosa hai detto? mi fa lei.

Niente, scherzavo. Bella Pasquetta, vero?

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