La Nuova Sardegna

A Porto Torres sono in 20 e vogliono lasciare l’isola

di Gianni Bazzoni
A Porto Torres sono in 20 e vogliono lasciare l’isola

Fermi all’imbarco tra le mani hanno un biglietto per arrivare a Genova Sono assistiti dai volontari, rifiutano di farsi identificare dalle forze dell’ordine

06 giugno 2015
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PORTO TORRES. Se ne vogliono andare, vorrebbero salire sul traghetto ma non possono farlo. Anche se hanno acquistato i biglietti all’agenzia e nessuno sa dire come hanno fatto, perché servivano soldi e documenti. Sono soprattutto etiopi, eritrei e somali, gente in fuga che non sa dove potrà arrivare. Di sicuro vogliono lasciare la Sardegna, il centro di accoglienza molto precario di Santa Maria La Palma - dove almeno hanno un tetto per quanto degradato e possono mangiare un pasto caldo -, quello di Valledoria, e guardano lontano, nel vuoto. Non finisce mai il viaggio dei migranti, questi in particolare sono una piccola pattuglia del contingente di oltre 700 esseri umani sbarcati nel porto canale di Cagliari dopo essere stati soccorsi in mare da una nave militare tedesca. Da giovedì girano per Porto Torres, si posizionano davanti all’ingresso del porto commerciale con la speranza di potersi imbarcare. Vogliono creare il caso, fare in modo che - in chissà quale maniera - possano nuovamente partire. Stavolta non su un barcone ma su una nave, con un biglietto spuntato tra le mani, facendo finta di non capire niente di quello che dicono gli altri, anche se parlano due o tre lingue. L’istinto della sopravvivenza li porta a decidere sul momento una strategia che spesso è di un piccolo gruppo, altre volte individuale.

Di sicuro hanno rifiutato di farsi identificare con i sistemi classici della polizia: impronte digitali, fotosegnalazione, hanno paura di commettere errori, temono che possa trattarsi di un legame che non consente più di partire per andare nel Regno Unito, in Germania o in Francia, dove vogliono ricongiungersi con altri familiari e parenti, e dove sono sicuri di avere opportunità occupazionali. Perché anche loro sanno che da queste parti la disoccupazione è una emergenza quotidiana, e che se non c’è lavoro per chi vive qui ancora meno ce ne sarà per loro che sono migranti, gente in viaggio senza una meta.

Sono una ventina a Porto Torres, giovedì sera se ne sono tornati a Santa Maria La Palma (forse non tutti), altri hanno trovato ripari di fortuna, non lontano dal porto turritano. E ieri sono arrivati per continuare la protesta davanti al varco di ponente: vorrebbero imbarcarsi sul traghetto per Genova, ma non si può. La mediazione è lunga, richiederà tempo e si porta dietro tutte le incomprensioni e le inevitabili tensioni di chi conosce solo un piccolo pezzo di storia, o forse niente di questi migranti. Porto Torres è in difficoltà, ma mostra il volto della solidarietà e un grande cuore. La polizia di stato, la polizia locale, gli scout e i volontari della Protezione civile, altri rappresentanti della associazioni. Acqua e un piatto caldo, ma c’è chi non mangia, improvvisa uno sciopero della fame che vorrebbe essere una protesta. E il comandante della polizia locale Catia Onida, ieri, ha ricordato le direttive della Prefettura: «I profughi che rifiutano la dislocazione nei centri perdono totalmente i diritti».

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