La Nuova Sardegna

La voce di Ovadia contro il razzismo

di Roberto Petretto
La voce di Ovadia contro il razzismo

L’incontro con l’attore a Oristano sul palco di “Dromos”

05 agosto 2015
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ORISTANO. In una sera d’estate mitigata da un venticello che fa rispolverare i maglioncini, alcune centinaia di persone si ritrovano in una piazzetta del centro storico di Oristano, occupano tutte le sedie disponibili oppure restano in piedi, per un’ora abbondante, ad ascoltare. Non un comico, non un musicista di grido. Sul palco c’è Moni Ovadia, un uomo che parla di utopie, di religioni, di popoli in marcia, di sofferenze e privazioni, di povertà e razzismo. Argomenti forti, eppure trattati con una semplicità che cattura l’attenzione di tutti.

Dromos da tempo non è più solo un festival musicale. È molto di più: un pentolone culturale dove si mescolano jazz e prosa, impegno civile e pittura, cinema e denuncia. La seconda tappa oristanese di Dromos lunedì sera in piazza Corrias ha proposto un dialogo tra il critico musicale Valerio Corzani e Moni Ovadia.

Ha ancora senso parlare di utopia in una società dove sembra prevalere la difesa dei privilegi acquisiti, l’edificazione di nuovi muri e barriere? Da sempre Ovadia parla di migrazioni e colonialismi, di razze e razzismi. Temi che oggi appaiono ancor più di attualità. Un percorso che ha toccato il continente americano e il bacino del Mediterraneo, ricordando storie e popoli, origini e discendenze: «Siamo tutti homo sapiens sapiens, mettiamocelo bene in testa. Il colore della pelle, il tipo di capelli, sono solo accessori dovuti all’adattamento alle varie latitudini».

Ecco perché le distinzioni di razza non hanno senso, ecco perché per Ovadia «il razzista è un coglione ritardatario». Perché siamo o siamo stati tutti il sud di qualcun altro. Noi italiani in primo luogo, ma abbiamo la memoria corta: «In America i nostri emigranti, negli anni ’20, erano considerati negroidi». E venivano trattati come alcuni di noi oggi trattano i moderni migranti che arrivano dalle zone più povere del mondo. Per molti un problema, per Ovadia una risorsa: «L’Italia rischia la necrosi, questi che arrivano saranno una nuova linfa. Saranno gli italiani di domani».

E ricorda che «anche la civiltà romana è nata da un meticciato». Anche se meticciato non significa rinunciare alla propria identità. E qui il discorso cade sulla Sardegna e su tutte quelle terre che hanno subito «un’esigenza colonialista». «Il più grande crimine del dopoguerra è stato quello di imporre la lingua italiana a discapito dei dialetti». Lingue locali che rappresentavano identità e ricchezza culturale: «A 14 anni ho sentito per la prima volta il “Miserere” cantato dal coro di Santu Lussurgiu: la Sardegna mi ha cambiato gli orizzonti».

Cultura profonda e ricca, che fa dire a Ovadia: «L’Ave Maria di Schubert? Schubert deve correre per altri 500 anni per raggiungere la bellezze dell’Ave Maria Sarda». Lingue e cultura soffocate e nascoste, in nome di una omologazione che rappresenta un accordo al ribasso: «Parliamo una lingua «aziendale e aziendalista, sottomessa alla stupidità degli anglicismi».

Ecco quindi l’utopia che riaffiora, e corre da un lembo all’altro del discorso, e imbastisce un vestito con filo sottile, ma forte. Un filo che si chiama conoscenza, si chiama bellezza. E le parole attribuite da Dante a Ulisse suggellano il discorso: «Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza».

@Petretto

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