La Nuova Sardegna

“Il figlio di Bakunìn” Anarchico innamorato della vita e delle donne

di LUCIANO CURRERI
“Il figlio di Bakunìn” Anarchico innamorato della vita e delle donne

di LUCIANO CURRERI La prima volta che ho sentito il nome di Bakunìn (1814-1876), con l'accento sulla “i”, sedevo in un piccolo cinema della periferia torinese, dove ero andato a vedere – con la buon’...

22 settembre 2015
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di LUCIANO CURRERI

La prima volta che ho sentito il nome di Bakunìn (1814-1876), con l'accento sulla “i”, sedevo in un piccolo cinema della periferia torinese, dove ero andato a vedere – con la buon’anima di papà, tipografo figlio di ciabattino – “La grande guerra” (1959) di Monicelli. Mi pare di ricordare che avessi iniziato da poco le medie e mi piacevano Italiano e Storia.

Gassman – dopo una esercitazione e in previsione di una nuova marcia di addestramento – se la prende coi compagni rassegnati agli ordini del sergente. Stralcio dal suo, improvvisato “comizio”: «Non c'è niente da fare, quello che vi frega a voi altri popoli non emancipati che mangiate il sapone è il fatalismo rinunciatario, guerra al privilegio ecco la guerra giusta! Ehi, ma l’avete mai letto il Bakunìn?». L’incontro con Sergio Atzeni.

Al Liceo, poi, mi capitò di leggere “Il diavolo al Pontelungo”, del 1927, di Bacchelli. Già in copertina, e poi in quarta, e in tutto il romanzo peraltro, il nome ha l'accento sulla “u”, alla russa: “Bakùnin”. Ci rimasi male. Ritrovare il nome di Bakunìn, con l'accento sulla “i”, grazie ad Atzeni, nel 1991, alla fine degli anni universitari e del servizio civile, ebbe l'effetto di una madeleine proustiana. Inizialmente comprai il libro di Atzeni solo per quell'accento. Poi lo prestai e lo persi, come è anche giusto che succeda, con certi libri. Lo ricomprai più di dieci anni dopo, all'altezza della sesta edizione, del 2002, e dopo aver visto – in TV se non erro – il film che ne aveva tratto Cabiddu nel 1997. Professionalmente, finii per partorire una paginetta in un volume dedicato alla guerra civile spagnola, a Sciascia e ai narratori italiani, intitolato “Le farfalle di Madrid”. In un passo evocante il conflitto spagnolo, si parla di Velio Spano (1905-1964), antifascista e comunista di Teulada ma segnato fin dall'infanzia dalle lotte degli operai e dei minatori di Guspini, sulla cui Scia scia dice poi, lentamente “infavolando”, dell'eroe del racconto, di Tullio Saba, come sospinti a confonderlo col personaggio storico, cosa che avviene, se non mi sbaglio, nel film di Cabiddu.

Il raccoglitore di racconti.

Del resto, a dimostrazione della parentela fra Tullio Saba e Velio Spano, non è estraneo il fatto – come mi dice l'amico Marzano – che i prenomi Tullio e Velio sono entrambi bisillabi e condividono la seconda sillaba “lio”; e i due cognomi pure, con due sillabe terminanti con vocale, la medesima per la prima – Sa/Spa –, che ha in comune anche l’iniziale. Non so se Atzeni l’abbia fatto apposta, ma certi fenomeni sono significativi e forse anche di più quando l'autore non ne ha piena coscienza: ad ogni modo indicano una comunanza assai forte. D’istinto mi verrebbe da suggerire che ci troviamo dinanzi a dei “bisillabi ossessivi” che aprono la strada a una condizione umana fatta di fratture emotive – prima che politiche – e a una specie di approdo a un “mito sovrapersonale”. In seno al quale siamo quanto meno spinti a confrontare Tullio col futuro senatore di diritto delle prime legislature repubblicane e soprattutto col suo percorso più “estremo”, mitico, romantico, rivoluzionario. Nel prosieguo di questo passo c'è tutto, o quanto meno molto. C'è un richiamo più insistito e metanarrativo circa la volontà di stimolare il racconto eclissandosi e di riceverlo su una matrice silenziosa che - lungi dal risolversi nel supporto materiale dell’ “Aiwa”, ricordato a fine libro è incarnata dallo stesso Tullio o, meglio, da quell'immaginario cui si dona, in silenzio, ben lungi dal tradursi in un individualismo puro e duro.

Oralità e silenzio doloroso.

E in questa sempre differita prospettiva, non è senza significato ch’egli muoia in «silenzio», come sua madre: donna Margherita «è morta, in silenzio, senza disturbare nessuno», si legge al capitolo XII, e Tullio «non ha voluto incontrare più nessuno. È morto in silenzio», al XXIX. Direi che c'è una disponibilità del personaggio a farsi “espropriare”, che corre di pari passo con una volontà del racconto a farsi essenziale, essicato “raccoglitore” di racconti altrui, in seno ai quali l'eroe è decostruito e ricostruito a un tempo, ovvero, in termini anarchici, distrutto appassionatamente e ricreato nuovo, in seno alla speranza di un'altra storia, di un altro uomo. Di più. Come mi ricorda l'amico Mura, in una terra di oralità il silenzio è già morte; e pensiamo, magari con la Dolfi, al «doloroso silenzio» di Mariangela Eca in “Il disertore” (1961) di Dessí. Insomma, morire in silenzio, senza incontrare e disturbare nessuno, significa, in ultima istanza, essere consapevole di quella alterna e caotica decostruzione e ricostruzione che seguirà: ed esserne consapevole non solo un po’ prima della fine, in limine mortis, ma in vita. In tal senso, ricordiamoci almeno che, a proposito del processo che vede Tullio tra gli imputati per l'assassinio del direttore della miniera, si dice che «Saba era quasi muto». E non è poca cosa per un eroe che è «anche un po’ istrione», per un uomo che ha «la parola facile».

Il padre anarchico.

Procedere in questo modo mi sembra utile per andare al di là di quella sorta di fissazione sull'identità che, proprio in seno a “Il figlio di Bakunìn”, comincia a «stufare», come dice per esempio la Lavinio. Penso infatti che non sia facile essere «il figlio di Bakunìn» e che esserlo significhi anche essere figlio di un più anarchico e non così monolitico immaginario ’900. Di più. Direi che significa sapersi regalare a questo immaginario senza neppure lo “spettacolo” della croce. Lo dico provocatoriamente, certo, e chiedendo peraltro a Cristo di non volermene e ricordando che la colpa di quel finale non è certo Sua. Ma lo dico non senza ragione, dal momento che già Sciascia – integrando ma correggendo, al principio degli anni Sessanta, una tradizione novecentesca che transita, fra gli altri, da Dos Passos a Malraux – tendeva ad allontanare quegli anarchici che si sentivano un po’ tutti dei Gesù Cristo e che del loro sangue vedevano redento il mondo tutto. Il rischio ultimo di questa “deriva” è quello di rigenerare i popoli -gregge e i popoli-messia, che l'anarchia di un secolo meno disattento – l'Ottocento, per esempio, delle pagine di Proudhon o di quelle polemiche di Bakùnin contro Mazzini – riconosceva e rigettava con forza.

Innamorato della vita.

E Atzeni, con garbo e intelligenza, va oltre, recuperando innanzi tutto quanto di epicureo è stato cancellato da questa visione degli anarchici e incarnandolo in un figlio innamorato della vita e delle donne. Ed è così che Bakunìn continua a figliare anche quando Stalin muore; e ammesso e non concesso che Stalin muoia per davvero. Sta di fatto che la scritta inneggiante a Stalin sta, nel testo atzeniano, in fondo a una miniera, quasi si trattasse più di una “sepoltura” consegnata al futuro che del segno di un passato antifascista e comunista, la cui ortodossìa traspare nell'accusa di aver smesso di esser comunista, rivolta a chi sollecita e registra i racconti altrui, in seno a una gioventù da cui i testimoni si ritraggono, più o meno rapidamente, per via di un orecchino che non piace né a destra né a sinistra.

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