La Nuova Sardegna

Veltroni sul filo della memoria: sapere è ricordare

di GIACOMO MAMELI
Veltroni sul filo della memoria: sapere è ricordare

“Ciao”, un libro dedicato alla figura paterna Un diario che rievoca un mondo svanito

07 novembre 2015
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di GIACOMO MAMELI

Non buttiamola in politica visto che l'autore è stato vicepresidente del Consiglio, segretario Pd, sindaco di Roma e candidato premier. Non buttiamola in questa politica 2.0, che più che calamitare respinge, più che spalancare speranze alimenta delusioni. Una politica di oligarchi, non di cittadini. Politica-élite visto che le masse disertano le urne e sono state rottamate.

Il nuovo libro di Walter Veltroni (“Ciao”, Rizzoli, pagine 248, 18.50 euro) ha tutt’altro spessore. Vola in altre e più alte atmosfere. Racconta a posteriori un interno di famiglia dell'Italia che si ricostruiva dopo le devastazioni della seconda guerra mondiale, è la tac dell’animo, del rimpianto di un bimbo che a un anno d'età perde il padre giornalista (è stato direttore del primo telegiornale in Italia). Aveva raccontato la tragedia di Superga con i campioni del Torino che – 4 maggio 1949 – si schiantarono con l'aereo su un costone delle colline dove sorge la Basilica delle Alpi. Un padre-cronista della Trieste che diventava italiana. Un padre amico di Michelangelo Antonioni e Cesare Zavattini: «Fu Zavattini a propormi di collaborare alla sceneggiatura di tre episodi di un film che si intitolava “L'amore in città”. I registi erano Carlo Lizzani, Dino Risi e Antonioni. Prima avevo anche scritto un film con Achille Campanile, con Peppino de Filippo. Ma soprattutto avevo scritto tre sceneggiature per il mio amico di sempre, Renato Rascel».

E giù ricordi a raffica, come se Vittorio Veltroni – morto nel 1956 – avesse vissuto un secolo non solo i suoi 37 anni. Ha ragione Michele Serra quando su Repubblica scrive che in questo pagine «il figlio diventa genitore del padre», come lo facesse rinascere, crescere, svelandolo prima di tutto a se stesso non solo a chi lo ha frequentato. Emerge così l'anamnesi umana di un genitore sconosciuto ma vivo. Una trama intrecciata con i ricordi di quanti lo avevano conosciuto e adesso lo svelano al figlio che ha compiuto sessant'anni pochi mesi fa. E che a nove anni, Natale 1964, manda la letterina «Ai miei genitori Ivanka e Valerio Veltroni» perché «avevo bisogno di sentire che la mia era una famiglia vera e per questo trasformavo un fratello in un padre». E segue una riflessione: «Da allora un ritardo, una telefonata mancata, un presentimento mi scuotono profondamente. Ho paura di perdere ciò che amo. Una paura atavica, irrazionale».

In questo libro convivono ragione e sentimento. La ragione di un mito della carta stampata e della tivù, Sergio Zavoli, che definisce Vittorio Veltroni «giornalista, perché portava nel mestiere la novità di essere dotato di una vis comica che, senza mai essere abrasiva, dava a quanto diceva e scriveva una grinta allegra e adescante, con il bandolo del rigore e della bravura». E poi il sentimento, che può diventare anche politica, quella ateniese: «Scopriresti, papà, che noi siamo meno felici di voi, voi non potevate neanche sognare quello che noi siamo e abbiamo oggi. Quello che possiamo fare, scegliere, conoscere. Voi avevate pianto e sofferto ma rimaneva la voglia di fotografarvi insieme, jaz. zisti, scrittori, appartenenti a un partito, a un sindacato o giornalisti che foste. Noi, al massimo, ci facciamo un selfie».

Due epoche diverse.

«I soldi sono diventati il surrogato individuale di una felicità collettiva che sembrava inafferrabile come l'araba fenice. Rispetto a quando eravamo ragazzi ci sono meno dittature, più libertà individuali, più ricchezza e possibilità diffuse. Forse il mondo è cambiato come volevamo noi e non ce ne siamo neanche accorti. E ora che lo vediamo non ci piace».

Non le piace il “mondo cambiato” italiano o quello globale?

«Parlo del mondo globale, dove ormai l'identità prevale sulla necessità del dialogo. L'identità esasperata è egoismo, è semplificazione, superficialità. Sono questi oggi i sentimenti prevalenti, quelli con i quali si misura e si rapporta anche l'opinione pubblica. Identità esasperata è non rendersi conto della rivoluzione universale delle migrazioni, delle disuguaglianze che stanno esplodendo. Guardiamo il modo superficiale col quale si parla oggi in Italia dei migranti. Superficialità fa rima anche con identità. Il mondo globale richiede analisi diverse, non populiste. La passione è schiacciata dalla superficialità».

Lei cita un proverbio tedesco che recita: nessun aratro si ferma per un uomo che muore. È il lato ottimistico di Walter Veltroni? Riemerge lo stesso Veltroni dello Yes, We Can?

«Quel proverbio lo si può leggere in due modi. Un conto è la memoria, un altro la nostalgia. Quest’ultima è acritica, semmai si esalta il bel tempo passato che era fatto di più fame, di maggiore analfabetismo, di epidemie e carestie, di diritti negati. La memoria è il voler ricordare per andare avanti. Raccontare è vivere. Sapere è ricordare. Raccontare mio padre è rivivere con la memoria non con la nostalgia. Continuo ad amare le persone che cercano la via d'uscita con la propria testa e non seguendo manuali già scritti. Ricordare gli anni di mio padre, la ricostruzione dell'Italia, quegli anni con la voglia di fare, è il voler andare avanti. Sì, We Can».

Una domanda davvero politica: lei è stato direttore dell’Unità, come giudica quella tornata nelle edicole?

«Sono troppo affezionato a quella testata. Sono molto contento che comunque sia tornata nelle mani dei lettori».

Scrive che siamo una società di fratelli, orfani di padri. Oltre suo padre Vittorio le mancano altri padri ?

«Mi mancano le figure di riferimento: dal parroco al segretario di sezione, dal maestro elementare al medico che nelle case vedeva malattie e disagi umani. Oggi è tutto orizzontale, sarà anche un dato dalla rivoluzione tecnologica simile a quella industriale inglese. Mi manca l'assenza del principio d'autorità, mi spaventa l'idea che tutti si sentano autorizzati a tutto, senza mediazioni. Siamo in una fase di assestamento, ma guai se cancellassimo la memoria di cosa è stata la società di ieri».

Quando ha sentito il desiderio di scrivere questo libro?

«Il bisogno di mio padre, il bisogno di conoscerlo e raccontarlo, è diventato una necessità quando mamma se n’è andata. Come se con la sua scomparsa rischiassero di dissolversi due vite, non una sola».

Nel libro, fra i ringraziamenti finali, ce n'è anche per la figlia di un dirigente nato a Nughedu san Nicolò nei pressi di Ozieri, l'avvocato Giovanna Cau, il grande avvocato del cinema italiano, da Marcello Mastroianni a Federico Fellini.

«La Cau è la mia agente, una donna eccezionale, che sa consigliare. Un padre, quasi. Molti intellettuali l'hanno eletta a loro nume tutelare».

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