La Nuova Sardegna

Domusnovas, viaggio nella fabbrica delle bombe: «L'unica industria rimasta»

di Alessandro Pirina
Domusnovas, viaggio nella fabbrica delle bombe: «L'unica industria rimasta»

Nel paese dell’Iglesiente si teme che il clamore sulla Rwm possa compromettere l’occupazione. Nello stabilimento lavorano 200 persone. Il consigliere: siamo tutti per la pace ma dobbiamo vivere

24 novembre 2015
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INVIATO A DOMUSNOVAS. A Domusnovas la pace fa più paura della guerra. Perché disarmare il paese, è l’opinione comune, equivale a mandare a casa decine di lavoratori. Da qualche settimana Domusnovas, piccolo centro di seimila anime a 10 chilometri da Iglesias, ha conquistato una fama che mai avrebbe immaginato. E che mai avrebbe voluto. Per tutti è oggi il paese delle bombe, la località in cui si costruiscono le armi destinate ai conflitti che stanno dilaniando il mondo. Per tutti, ma non per la sua comunità, che difende a spada tratta quella fabbrica che rappresenta l’unica fonte di sostentamento per il paese. L’unica possibilità di arrivare a fine mese per decine di persone. C’è chi dice 120 dipendenti, chi ne conta 200, chi arriva fino a 250 perché tiene conto di tutto l’indotto. Ed è per questo motivo che l’improvvisa fama a Domusnovas fa paura. Più delle bombe. Lo dicono a chiare lettere e non lo nascondono. Dal bar alla piazza, è un disco incantato: la Rwm, la fabbrica tedesca di armi alle porte del paese, non si tocca.

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Il barista non vuole rilasciare dichiarazioni, non gli va di leggere il suo nome sul giornale, ma alla fine qualcosa se la lascia scappare. «Il paese è preoccupato che tutto questo clamore abbia un effetto negativo sull’occupazione. A Domusnovas è rimasta solo la fabbrica». Al bar non si parla d’altro. Dopo la denuncia di Mauro Pili del carico d’armi a Elmas destinato alla guerra in Yemen in tanti - in paese dicono troppi - si sono occupati della Rwm. Da Beppe Grillo che via Twitter ha accusato il governo di armare l’Arabia a Stefano Fassina che ha chiesto l’intervento del Parlamento. Fino al ministro Roberta Pinotti, che ha liquidato la questione come uno stringato «è tutto a norma di legge».

Seduto a un tavolino c’è Marco Cuccu, assessore all’Urbanistica e consigliere comunale. «La Rwm è indispensabile per l’economia del paese – afferma –. Per Domusnovas è una realtà fondamentale. Qui c’è disperazione e la fabbrica è l’unico sbocco. Noi siamo tutti per la pace ma dobbiamo anche vivere. E poi, diciamoci la verità, se le armi non le producono qui lo faranno da un’altra parte. Se uno stato ha un esercito è ovvio che investa sulla difesa». Cuccu ce l’ha con Pili. «Di lui condivido molte idee ma prima di dire certe cose occorre soppesarle. A Domusnovas non si corre alcun rischio, perché qui non si fanno bombe, ma involucri. Il vero pericolo è che prima della fabbrica non lo sapeva nessuno, ora lo sa tutto il mondo». Le parole dell’assessore conquistano i suoi compagni di colazione. «Nessuno costruisce bombe a cuor leggero, ma è costretto. Quando hai una famiglia da mantenere non puoi fare altrimenti».

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Nel paese i discorsi sono tutti dello stesso tenore. Da un lato si prova quasi vergogna a sostenere l’industria delle armi, dall’altro la realtà dice che non c’è alternativa. A Domusnovas spaventa più la disoccupazione della guerra. «È una zona poverissima, il lavoro bisogna tenerselo stretto. Mio figlio ha 54 anni, lavoricchia per 3 mesi all’anno. E poi più nulla. È davvero difficile andare avanti». A parlare è una mamma. Una delle tante di un territorio che ai suoi figli sta lasciando poche chance. «Una di queste è la Rwm – ammette Marco Congia, che lavora in un agriturismo –. Certo, quando vieni a sapere quello che producono sei un po’ combattuto, ma poi ti guardi intorno e vedi che è l’unica cosa che dà lavoro».

Se nel centro di Domusnovas c’è apprensione per il futuro, figurarsi all’interno della fabbrica. Una preoccupazione che però nessuno fa trapelare. Da parte dei lavoratori solo bocche cucite, entrano ed escono dallo stabilimento a 5 chilometri dal paese senza rilasciare dichiarazioni. Silenzio assoluto. «Come hanno sempre fatto», dicono in paese. Più che una strategia, dunque, una clausola del contratto che impone il segreto su tutto ciò che avviene all’interno dello stabilimento.

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