La Nuova Sardegna

Luigi Pintor, la lezione di vita del grande giornalista sardo

di Valentino Parlato
Luigi Pintor
Luigi Pintor

Un libro di Jacopo Onnis a novant’anni dalla nascita

03 dicembre 2015
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Luigi è stato maestro di giornalismo. Ci ha insegnato una cosa molto importante: la sintesi, la brevità (i suoi editoriali non giravano mai in un’altra pagina) e ci ha dato straordinarie lezioni sulla importanza e la qualità che debbono avere le notizie a una colonna. Chi legge un giornale non legge un libro, deve avere uno strumento rapido, veloce e Luigi in questo era maestro, riusciva a sintetizzare tutto in una colonna, una colonna e mezzo.

Non è un caso che nella famosa intervista a Mixer condotta da Minoli, Enrico Berlinguer parlasse di Luigi Pintor come del miglior giornalista italiano. C’era in quella definizione non solo il riflesso di una antica amicizia o della comune sardità, non solo l’apprezzamento del professionista, ma qualcosa di più profondo: c’era una simpatia, nel senso etimologico del termine, un sentire insieme, una profonda sensibilità comune.

Grande giornalista. Fu giornalista in senso politicamente alto. Aveva coscienza della precarietà del quotidiano: «A mezzogiorno - ci diceva – con il giornale si possono avvolgere le patate». A mio parere questa coscienza della precarietà è solo l’anticipazione di qualcosa di più profondo. Parafrasando la famosa frase di Gertrude Stein («una rosa è una rosa è una rosa») ci ripeteva: «un giornale è un giornale è un giornale». Coglieva così e metteva in evidenza uno specifico giornalistico, che è assolutamente politico, contro la semplificazione che un giornale debba essere solo l’amplificatore di una linea politica, eludendo lo specifico del mezzo e la differenza tra propaganda e persuasione.

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È una questione delicata su cui, all’interno del Manifesto, ci siamo più volte scontrati. Luigi ci ricordava che la qualità è l’essenza di un giornale, cioè non un giornale e basta, ma proprio perché è un giornale è necessario che abbia determinazione e passione politica. È certamente effimero ma deve esprimere contenuti. Non . è un bollettino, è una voce, è uno strumento di intervento continuo, di informazione continua, di presenza e battaglie continue. (...)

Al Manifesto. Nei primi tempi del Manifesto, quando i giovani imparavano il mestiere, c’era l’abitudine che chiunque scrivesse qualcosa la facesse vedere a un altro e soprattutto a Luigi. Non era uno stroncatore, era un lettore rispettoso, cercava sempre di capire cosa avessi voluto dire, dava consigli, suggeriva correzioni. E se dei giovani alle primissime armi, che non avevano mai scritto una parola salvo i temi a scuola, siano diventati poi bravissimi professionisti e firme autorevoli del giornalismo italiano vuol dire che quella scuola è stata davvero fondamentale.

La famiglia. Certamente nella formazione della sua personalità un ruolo importante lo ha avuto la famiglia. Siamo nella prima metà del Novecento quando le famiglie ancora contavano e la famiglia Pintor, come quella dei Lombardo Radice o dei Natoli, aveva un peso. La famiglia Pintor non era certo riconducibile solo a Giaime, ucciso a 24 anni dall’esplosione di una mina mentre passava il fronte per unirsi alle forze della Resistenza. La famiglia Pintor era qualcosa di più: era lo zio Luigi, di fatto governatore della Libia, era lo zio Pietro, il generale del corpo d’armata del fronte occidentale, presidente della Commissione d’armistizio con la Francia ( di cui faceva parte anche il giovanissimo Giaime) e che poi morì in un misterioso e sospetto incidente aereo.

Nel segno di Giaime. Ed era anche lo zio Fortunato, uomo mite e coltissimo, direttore della Biblioteca del Senato, deus ex machina dell’Enciclopedia Italiana, che aveva accolto nella sua casa romana Giaime quando, lasciata la Sardegna, aveva voluto completare i suoi studi nella Capitale. E come Luigi scrive con accenti commossi in Servabo, sarà lo zio Fortunato, nel dopoguerra, ad accompagnarlo nell’alto Volturno alla ricerca del corpo del fratello.

La vita di Luigi non si può ricostruire senza parlare di Giaime. Muore a 24 anni ma riesce a imporsi come presenza folgorante nella cultura italiana del tempo. (...) È un giovane di incredibile energia e di interessi culturali vastissimi. Ha un ruolo fondamentale nei primi anni di attività della casa editrice Einaudi. Giulio Einaudi e Cesare Pavese, ben più anziani di lui e sempre molto critici, restano affascinati dall’intelligenza e dall’inventiva del giovane Pintor. Tutto in lui è straordinario: la partecipazione ai Littoriali della Gioventù, i successi letterari, la scelta della Resistenza, la sua stessa morte. Sembra un apologo. Come se un personaggio come Giaime non potesse sopravvivere a quella tragedia ma dovesse, con la sua morte, darle risonanza e, insieme, alla sua personalità che da quella fine drammatica veniva moltiplicata per cento.

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Pesssimista critico. Luigi era pessimista e critico ma il suo pessimismo non frenava l’impegno culturale e politico. Guardava in faccia la realtà. Non era uno scienziato sociale, non era un economista, era un giornalista nel senso più alto del termine, voleva vedere le cose come stavano, convinto che solo da una analisi approfondita della situazione esistente si può formulare una diagnosi e preparare una svolta. Sapeva che non era più tempo di ricuciture, di rappezzamenti, di soluzioni parziali e che bisognava prendere atto che erano in corso passaggi epocali.

Ultimo editoriale. Nel suo ultimo editoriale, dal titolo “Senza confini”, il 24 aprile 2003,meno di un mese prima della fine, scrive: «La sinistra italiana è morta. Non lo ammettiamo perché si apre un vuoto che la vita politica quotidiana non ammette. Possiamo sempre consolarci con elezioni parziali o con una manifestazione rumorosa. Ma la sinistra rappresentativa, quercia rotta e margherita secca e ulivo senza tronco, è fuori scena. Non sono una opposizione e una alternativa e neppure una alternanza, per usare questo gergo. Hanno raggiunto un grado di subalternità e soggezione non solo alla politica della destra ma al suo punto di vista e alla sua mentalità nel quadro internazionale e interno».

E indicava soprattutto quello che oggi dovrebbe essere nella mente e nel cuore di chi ancora pensa che una sinistra sia necessaria alla vita del Paese: «Non ci vuole una svolta, ma un rivolgimento. Molto profondo…Nel nostro microcosmo ci chiamavamo compagni con questa spontaneità ma in un giro circoscritto e geloso. Ora è un’area senza confini. Non deve vincere domani ma operare ogni giorno e invadere il campo. Il suo scopo è reinventare la vita in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste». C’è una perfetta continuità con quanto scriveva, 32 anni prima, nell’editoriale del primo numero del Manifesto, il 28 aprile 1971: «La situazione esige molto più che un rifiuto. Siamo convinti che c’è bisogno e urgenza di una forza rivoluzionaria rinnovata, di un nuovo schieramento, di una nuova unità della sinistra, di un nuovo orientamento strategico complessivo». (...)

Luigi è stato un fratello maggiore, un amico, un compagno in senso profondo. Per chi gli è coetaneo, ma anche per i giovani, la sua uscita di scena ha costituito un’altra avanzata di quella grigia armata che si chiama solitudine.

© Ediesse 2015

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