La Nuova Sardegna

Da Cirese a Gramsci lo sguardo obliquo di Giulio Angioni

di PIETRO CLEMENTE
Da Cirese a Gramsci lo sguardo obliquo di Giulio Angioni

Dal libro “Cose da prendere sul serio. Le antropologie di Giulio Angioni” (Edizioni Il Maestrale)pubblichiamo una parte del contributo di Pietro Clemente. * * * di PIETRO CLEMENTE Il libro di Giulio...

29 dicembre 2015
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Dal libro “Cose da prendere sul serio. Le antropologie di Giulio Angioni” (Edizioni Il Maestrale)pubblichiamo una parte del contributo di Pietro Clemente.

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di PIETRO CLEMENTE

Il libro di Giulio Angioni che porterei nell’isola deserta (tra gli scritti saggistici di ricerca) è “Rapporti di produzione e cultura subalterna. Contadini in Sardegna” (1973).

C’è un numero elevato di nessi tra quel libro e me da farmelo sembrare quasi un luogo di riferimento vitale. In questo libro c’è una traccia forte di Giulio Angioni che pensa i contadini da dentro un movimento politico di trasformazione e di una comunità condivisa, quella del suo paese natale. I suoi scritti in “Rapporti di produzione e cultura subalterna. Contadini in Sardegna” su questi temi sembrano mantenere qualche eco degli interventi al consiglio comunale di Guasila, o degli incontri con i contadini della Confederazione italiana degli agricoltori. Ritrovo questo Giulio Angioni anche nella figura del sindaco nel romanzo “L'oro di Fraus” (1988). Anche questo romanzo mi è caro con una predilezione analoga – nel mondo di Angioni narratore – a quella per i suoi “Rapporti di produzione”. I due testi, fanno, a mio avviso, un po’ “sistema” nel rappresentare un nodo dello stile angioniano. Ma aiutano anche a cogliere la dimensione di Angioni “testimone” e “antropologo nativo” (ma anche antropologo pubblico e militante).

Non a caso nella prefazione di “Rapporti di produzione e cultura subalterna. Contadini in Sardegna” Angioni scrive: «Le ricerche dirette e le riflessioni, di cui questo libro è un frutto, hanno anche un’origine di carattere autobiografico che ritengo doveroso dichiarare, perché elemento rilevante del modo di dispormi di fronte ai fenomeni osservati e del modo di analizzarli e di riproporli. Nato in uno dei paesi della zona dell’inchiesta, dove ho vissuto la mia infanzia, in una famiglia contadina, conosco come lingua materna il dialetto locale. Più tardi ci sono ancora vissuto per periodi più o meno lunghi. Per anni ho anche vissuto in altre zone italiane prettamente agricole, come il Monferrato in Piemonte o la Bassa Lodigiana in Lombardia. Regioni che, nella loro diversità soprattutto rispetto a quella sarda della Trexenta, zona dell’inchiesta, mi sono servite, quanto meno nel ricordo, come termine di paragone e come appiglio per prendere, ove necessario, le distanze dalla materia, trattata anche con un non deprecabile coinvolgimento di affetti. Ho insegnato, durante gli anni scolastici dal 1961 al 1967, in scuole di tre diversi centri della Trexenta, dove, a cominciare dal 1965, svolgo anche qualche attività politica, sindacale e amministrativa».

Negli anni Settanta questa confessione di vissuto non era particolarmente di moda. In Angioni fa da contraltare al carattere descrittivo delle testimonianze saggistiche, dove il soggetto che racconta non è nella pagina. Ma è chiaro che giustifica anche il mondo della ricerca, la sua vicinanza ad esso. Dice il perché espone testimonianze di vita di contadini come parte di una storia comune. Sono i tratti dell’antropologia all'italiana, figlia della demologia di Cirese che rivendico anche contro il ritorno di fiamma tra i giovani della ricerca immersiva malinovskiana, quella che negli anni Novanta considerammo finita con la svolta retorica e le poetiche e politiche dell’etnografia. Un Malinowski al quale Angioni si riferisce in «Rapporti di produzione e cultura subalterna. Contadini in Sardegna» per giustificare la presenza nel testo della voce e del punto di vista dei contadini sardi tratti da brani di inchiesta orale legata alla dimestichezza dell’autore con quel mondo, anche suo.

A distanza di tempo questa giustificazione di sguardo comparativo distanziato che viene aperta con le parole «per anni ho anche vissuto in altre zone», la sento vicina a una dichiarazione più impegnativa, quella di Pablo Neruda: «Confesso che ho vissuto», titolo della sua autobiografia ed anche della canzone omonima di Angelo Branduardi (se è lecito produrre contaminazioni) ispirata a Neruda: «C'è quest’aria/ ancora insanguinata di parole/ che ho parlato io/ e i sogni che ho sognato e disegnato,/ c’è la casa, il sole, l’albero,/ l’uomo accanto all’albero/ con lei/ La stessa che ho voluto/ qui con me/ e se c’è ancora luce grazie a Dio/ sul silenzio mio/ se troppo ho immaginato e camminato/ ma con occhi da sorprendere/ e un cuore per comprendere/ se mai/ tutto quel che ho avuto/ E se dovrò cucirmi addosso anch’io/ lo strappo al velo di un addio/ però/ confesso che ho vissuto».

Il testo di Branduardi mi fa pensare al romanzo di Angioni “La casa della palma” (2002) e a molta della sua poetica di narratore. Ma la cito qui anche per fare riferimento a Giulio amico di Facebook che tutti i giorni per gioia o per dolore ci lascia una poesia virtuale o virale. Ho cliccato su “mi piace” quasi sempre, qualche volta mi sono commosso, qualche volta ho invidiato il suo senso della forma delle parole, la tenacia (che è anche fede e passione) nell’affidarsi alla parola poetica. Oramai quella più frequente, che io sappia, a partire da “Tempus” (2008). Una l’ha dedicata alla mia pensione nel libro collettivo a cura di Alberto Sobrero, “Il cannocchiale sulle retrovie” (2012) che si intitola “E dunque eccoci qui” e prevede, tra l’altro, che «ci sorprende la luna/ e qualche volta o tu o io/ ci troviamo a volare tra i colori/ al di sopra dei tetti di Chagall», e mi ricorda la canzone di Francesco de Gregori per Caterina Bueno (“Caterina”): «Caterina questa tua canzone la vorrei veder volare /sopra i tetti di Firenze». Poesie ironiche, forse sardoniche, poesie che giocano con le parole, riflessive, tragiche, anche liete, leggère coma la bimba di Umberto Saba. Un volo dal 1973 sui cieli del mediterraneo, tra antropologia e poesia.

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