La Nuova Sardegna

Per i rom di Alghero casa, diritti e identità

di Costantino Cossu
Per i rom di Alghero casa, diritti e identità

Ieri il convegno a un anno dalla chiusura del campo di Fertilia

31 gennaio 2016
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ALGHERO. Le ruspe che buttano giù le case di legna. Immagini che scorrono sul grande schermo e mostrano il campo nomadi dell’Arenosu che viene giù, pezzo per pezzo, davanti all’obiettivo delle telecamere di Sardegna Live, esattamente un anno fa, a fine gennaio del 2015. Da quel giorno le famiglie rom di Fertilia abitano in città. I disagi patiti per anni, i bambini che si ammalavano per le pessime condizioni igieniche, sono un ricordo. Da Alghero viene un esempio di integrazione che fa vedere come la vergogna dei campi non sia l’unica soluzione possibile. Un progetto quasi unico in Italia (ce ne sono pochissimi altri). Dopo un anno l’amministrazione comunale ha deciso di trarre un primo bilancio in un convegno che si è svolto ieri a Lo Quarter.

Bajiro, un veterano dell’Arenosu, è stato il primo, tra i rom, a prendere la parola: «Nel campo si stava male. Ora abbiamo case dove possiamo vivere dignitosamente. Ma è anche vero che per noi l’Arenosu era il luogo in cui stavamo insieme, celebravamo le nostre feste. Ora viviamo isolati gli uni dagli altri. Integrazione sì. Però non vorremmo perdere il senso di appartenere a una comunità, il senso della nostra identità». E dopo di lui la vecchia Arifa: «La cosa buona che è successa in questo anno è che la gente si è accorta che noi non siamo il diavolo. Questo è bene, soprattutto per i giovani, per i nostri figli, per i nostri nipoti. Forse per loro il futuro sarà meno difficile». E ancora il giovane Luca: «E’ importante che ora abbiamo una casa. Finalmente i miei figli vivono in un’abitazione vera. Ma non basta. Integrazione significa anche lavoro. Il lavoro è una delle basi della cittadinanza. Difficile sentirsi uguali agli altri se con i soldi non si riesce ad arrivare alla fine del mese».

Alla voce dei rom si è aggiunta quella degli altri protagonisti del progetto: l’Asce (Associazione sarda contro l’emarginazione sociale), il Centro ascolto della Caritas, il sindaco di Alghero Mario Bruno, i servizi sociali del Comune. Per l’Asce Irene Baule ha ricordato i tanti anni di impegno con i rom, per garantire loro rispetto dei diritti e condizioni di vita umane. Per la Caritas Antonio Cocco ha ricordato il lavoro, non semplice, per trovare proprietari di case disposti ad affittare alle famiglie che lasciavano l’Arenosu. Bruno ha spiegato che quello che è stato fatto è soltanto un primo passo: «Ci sono cose da mettere a punto. Ma soprattutto bisogna impegnarsi a raggiungere gli obiettivi indicati qui oggi: il lavoro e il recupero di una dimensione comunitaria che eviti che il progetto di integrazione abbia come effetto la perdita di identità, lo sfilacciamento dei rapporti».

Una casa da sola, quindi, non basta. Lo hanno ricordato anche Domenico Sotgia e Antonio Pala, che hanno parlato rispettivamente a nome dell’Auser e di Abitare solidale, due associazioni che tengono insieme ricerca della casa per chi non ce l’ha e definizione concreta di nuovi modelli di socialità. Quanto sia complicato risolvere questi problemi lo ha detto l’assessore del Comune di Alghero alle politiche della casa, Gabriella Esposito. Dopo la quale l’assessore regionale ai lavori Pubblici, Paolo Maninchedda, ha spiegato che continuare a dare finanziamenti a fondo perduto per risolvere l’emergenza abitativa è diventato quasi impossibile in tempi di debito pubblico e di tagli delle spese. Bisogna ricorrere a strumenti nuovi, aprire al mercato, ma nel quadro di progetti in cui sia la politica a definire insieme interesse pubblico e vantaggio privato. Per recuperare risorse verso le fasce di reddito più basse bisogna che la politica si assuma la responsabilità di decidere, orientando le dinamiche di mercato verso fini di rilevanza collettiva.

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