La Nuova Sardegna

La Corte inchioda l’esercito Uranio letale, ecco le prove

di Mauro Lissia
La Corte inchioda l’esercito Uranio letale, ecco le prove

Per i giudici non ci sono dubbi: c’è un nesso di causalità con la morte di Vacca Dalle carte arriva la conferma sui danni alla salute dalle polveri di metallo

22 maggio 2016
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CAGLIARI. Non solo uranio impoverito, ovunque esploda materiale bellico ad altissima temperatura si sprigionano polveri di metallo che restano a lungo nell’atmosfera, si depositano sulla vegetazione e su qualsiasi altra superficie, una sorta di patina tossica potenzialmente nociva per uomini e animali. La sentenza firmata il 20 maggio dai giudici della prima Corte d’Appello civile di Roma - che ha confermato il diritto al risarcimento per il ventitreenne caporalmaggiore Salvatore Vacca di Nuxis - morto del 1999 di leucemia dopo 150 giorni trascorsi su aree di guerra in Bosnia - assume ad una lettura analitica una portata storica. Finora, tra commissioni d’inchiesta ministeriali, indagini epidemiologiche ed esami chimici, nessun collegio giudicante aveva accertato su basi di diritto il nesso di causalità tra l’attività militare e malattie come la leucemia e il morbo di Hodgkin, mali che spesso vengono contratti da soldati rientrati da missioni di guerra e sui quali si tende a sorvolare. Ai ricorsi presentati nei tribunali di tutta Italia dai familiari dei militari ammalati si erano spesso sovrapposte archiviazioni legate all’impossibilità di stabilire oltre ogni ragionevole dubbio una relazione diretta tra le esplosioni in teatri bellici o di addestramento e le conseguenze sulla salute degli operatori.

Il nesso di causalità. I giudici d’appello romani - presidente Diego Pinto, consiglieri Raffaella Tronci e Luigi Miraglia - hanno rotto il munitissimo muro protettivo eretto negli anni dalla Difesa per arrivare dritti al punto: l’inalazione di polveri d’uranio - le celebri nanoparticelle della ricercatrice Anna Maria Gatti - provoca in tempi brevissimi l’insorgenza di patologie letali. Ma se quest’aspetto poteva dirsi per certi versi accertato sul piano clinico, la sentenza elaborata sulla scorta di consulenze scientifiche qualificate insiste sui fattori di rischio, mettendoli finalmente in fila uno dopo l’altro: perché le polveri di metallo infestino i polmoni è sufficiente manipolare armamenti, entrare in contatto con autocarri utilizzati in zone di guerra, attraversare spazi dove si siano verificate esplosioni ad alta temperatura. Proprio il caso sardo lo conferma: a Salvatore Vacca sono stati sufficienti quaranta turni di pattugliamento come pilota di mezzi meccanici nell’arco di cinque mesi, senza alcuna protezione, per tornare a casa in condizioni di salute irrecuperabili, che attraverso una prima diagnosi di sindrome cardio-vascolare ipercinetica firmata dall’ospedale militare di Cagliari e una di morbo di Basedow (l’ipertiroidismo) dell’Università cagliaritana l’hanno portato alla morte per leucemia linfoblastica, insufficienza renale e broncopolmonite bilaterale. Una diagnosi che tutte le commissioni medico-scientifiche impegnate all’esame successivo del caso hanno messo in rapporto diretto con l’assunzione per via polmonare delle polveri d’uranio.

La concentrazione. Ed è su questo punto che la sentenza offre un altra novità rilevante e forse decisiva per i pronunciamenti che verranno: la concentrazione delle polveri non ha alcun rilievo. Scrivono i giudici: «Non sussiste un valore di soglia biologicamente sicuro per agenti di tale natura». Come dire: nessuno può affermare che modeste quantità di polveri d’uranio (o di altro metallo, ndr) non danneggino la salute umana e animale, al contrario basta poco per condurre alla morte.

La perizia. La conferma - si legge nella sentenza - è arrivata dagli esami condotti dalla Gatti sui reperti biologici di Salvatore Vacca: nel suo organismo sono state trovate particelle di un micron e di 800 nanometri di composti diversi che contenevano titanio, ferro e cloruro di bismuto «costituenti - scrive la Corte d’Appello - particelle inorganiche di origine esogena in quanto elementi chimici non presenti nel corpo umano». Sono quelli che - a giudizio della Corte e dei consulenti che hanno fornito ai magistrati gli elementi per valutare il caso giudiziario - hanno ucciso il caporalmaggiore di Nuxis, i cui familiari riceveranno un risarcimento di un milione e mezzo ma soprattutto hanno avuto giustizia.

Le colpe. La colpa della Difesa? Non aver informato i militari impegnati nelle aree di guerra sui rischi che correvano e non averli attrezzati con maschere, occhiali, tute e guanti indispensabili a prevenire contatti pericolosi. Colpa non lieve: dal 1980 l’esercito americano conosce quei pericoli e li previene. Qualcuno dirà: un militare in missione sa in partenza che la sua vita è a rischio. È un argomento che la Corte d’Appello di Roma ha smontato del tutto: i giudici mettono infatti sullo stesso piano l’attività dei soldati con quella dei lavoratori comuni, chiarendo che la Difesa è obbligata a garantire le stesse precauzioni dovute a qualsiasi altro operatore. Di conseguenza va rispettato l’obbligo di «effettuare un preventivo accertamento della natura e della composizione della sostanza pericolosa in relazione alle operazioni da compiersi, compresi i lavori di manipolazione, carico, trasporto, scarico e immagazzinamento».

Gli obblighi. Di più: è obbligatorio «rilevare e valutare i rischi collegati all’uso di queste sostanze per stabilire gli eventuali e necessari provvedimenti di tutela dai pericoli preventivati all’esito degli accertamenti compiuti». Questi rischi devono essere «eliminati o ridotti al minimo con l’allestimento e l’attuazione di misure di prevenzione e di protezione dei lavoratori» come guanti, occhiali e maschere. La Difesa ha osservato queste prescrizioni? Per i giudici della Corte d’Appello di Roma no, non le ha osservate. Per questo risponde a titolo di colpa della morte di Salvatore Vacca e forse di altri soldati che non sapevano a cosa andassero incontro.

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