La Nuova Sardegna

L'ANALISI

Delitti Monni e Masala, non è vendetta ma soltanto ferocia

di Giulio Angioni
Delitti Monni e Masala, non è vendetta ma soltanto ferocia

Omicidi non ricollegabili in alcun modo al codice barbaricino: una banale rissa ha originato una reazione folle e inaudita

27 maggio 2016
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Già a ridosso dei fatti, e ora per qualificare i risultati delle indagini sull'uccisione di Gianluca Monni e di Stefano Masala, è ricorrente l'indicazione della vendetta come movente. Cosa evidente già fin dall'agguato micidiale di Orune, se per vendetta si intende una banale azione violenta di rivalsa. Ma ora, dato anche il luogo degli eventi, si parla di applicazione del codice della vendetta barbaricina. Vale la pena fare qualche precisazione, per cercare di fare giustizia contro chi va punito, alle vittime e alla storia culturale antica e recente della Barbagia.

La norma che bisogna vendicare l'offesa (cioè la vendetta) è ritenuta dagli studiosi, soprattutto dall'orunese Antonio Pigliaru, tratto fondante del vecchio ordinamento giuridico barbaricino. La norma della vendetta come diritto e dovere è infatti vista da Pigliaru come introduzione a un sistema di certezze del singolo e della comunità, e anche come azione di tutela giuridica per il singolo, per i gruppi interni come le famiglie e i parentadi, per l'intera comunità. L'offesa deve essere vendicata da chi l'ha subita. E ciò non perché un certo istinto primordiale di difesa, d'equilibrio o anche se di giustizia esiga la vendetta come giusta reazione all'offesa, ma perché l'ordine sociale, il sistema di regolarità che fonda e tutela quell'ordine, impone al suo membro di vendicarsi quando è stato offeso. Obbligo sociale perché l'offesa al singolo o a un gruppo interno turba l'ordine sociale, istituendo estraneità e conflitto, da restaurare con l'esercizio della vendetta, delegato all'offeso, o in subordine al gruppo di cui fa parte. È la comunità stessa che si realizza e si pone come soggetto di azione mediante l'attribuzione al singolo del dovere della vendetta. Il vendicatore è dunque organo della società perché vendicare l'offesa è un fatto di interesse pubblico in quanto tale, e quindi da disciplinare compiutamente e integralmente. La vendetta è allora, oltre che dovere morale, anche dovere giuridico, perché si configura come castigo, e in questo contesto da "codice di guerra", come lo qualifica Pigliaru, la nozione di castigo non è incommensurabile con la nozione moderna e civile di pena.

Ci sono difficoltà e aporie intrinseche al codice tradizionale della vendetta, a parte lo scontro con altri ordinamenti forestieri compresenti e alternativi nel passato e nel presente. Pigliaru ha annotato e chiosato puntualmente i ventitré articoli della sua trascrizione del codice consuetudinario e implicito della vendetta. L'ultimo articolo, il ventitreesimo, recita: "L'azione offensiva posta in essere a titolo di vendetta costituisce a sua volta nuovo motivo di vendetta da parte di chi ne è stato colpito, specie se condotta in misura non proporzionata ovvero non adeguata ovvero sleale. La vendetta del sangue costituisce offesa grave anche quando è stata consumata allo scopo di vendicare una precedente offesa di sangue".

L'azione vendicatrice come nuovo motivo di vendetta per Pigliaru rivela arcaicità, inefficacia e inadeguatezza come mezzo di restaurazione dell'ordine sociale turbato. La vendetta, scrive Pigliaru, è inadeguata come "introduzione a un sistema di certezza" e come "azione di tutela giuridica". Il principio degenera e diventa incontrollabile come appunto le faide, con le sequele di banditismo. Il codice barbaricino, in questa sua inconcludenza e inadeguatezza, è e rimane un "codice di guerra", "legge della giungla" che regola l'ostilità senza porsi il problema di eliminarla.

L'ordinamento giuridico barbaricino, legge tacita, politica implicita, opinione pubblica vincolante, si segnala come esempio sardo di norme ampiamente diffuse nel mondo soprattutto in passato, a cominciare dalla vicina Corsica, tipici di società semplici dove il potere non si disloca gerarchicamente, e dove invece si potrebbe parlare di una egemonia vicina al suo stato puro, nel senso di un consenso spontaneo e implicitamente richiesto e ottenuto da parte di tutti, incorporato per impregnazione inconscia, che diventa conscia nei rapporti con modi di vita contigui o compresenti, come lo stato moderno nei confronti di culture tradizionali più o meno differenti e confliggenti, sub-società con la loro cultura propria.

Ma, a parte il giudizio negativo di arcaicità e inconcludenza dato da Antonio Pigliaru al codice sardo della vendetta, i fatti di Orune-Nule non si inquadrano affatto nella logica imperativa della vendetta come ordinamento giuridico, tanto meno come lo si conosce per la Barbagia tradizionale. Primo, perché l'uccisione dell'offensore, innescata da una banale rissa da discoteca (come un tempo da tzilleri), risulta del tutto sproporzionata all'offesa; secondo perché si accompagna all'uccisione di un estraneo; terzo perché l'atto punitivo è stato compiuto anche da un complice dell'offeso; quarto perché la vendetta ha comportato anche il furto di un bene (l'automobile) di un estraneo. Pigliaru, come tanti altri orunesi di ieri e di oggi, già per nulla indulgente verso l'efficacia giuridica del codice della vendetta, non darebbe nessuna patente di atto giuridico previsto dall'antico codice locale basato sulla regola che l'offesa va vendicata da parte di chi l'ha ricevuta. Se i fatti di Orune-Nule si sono svolti grosso modo come le cronache ci informano, in base agli atti e alle parole degli inquirenti, quei fatti sono tanto estranei al codice della vendetta barbaricina quanto al codice penale dello stato italiano, e altrettanto condannabili da entrambi gli ordinamenti giuridici.

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