La Nuova Sardegna

Conciliare lavoro e figli è un’impresa: seicento donne sarde si arrendono

di Mario Girau
Conciliare lavoro e figli è un’impresa: seicento donne sarde si arrendono

Nel 2016 hanno lasciato l’impiego: impossibile seguire contemporaneamente anche la famiglia

28 luglio 2017
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CAGLIARI. È difficile capire e ancor più giustificare, ma nel secolo XXI mettere al mondo un figlio e generare la vita può significare emarginazione. Ecco la forma più grave di discriminazione tra uomo e donna. La denuncia è di Tiziana Putzolu, da qualche mese consigliera regionale di parità. «Se la disparità di genere ha un volto – dice la consigliera - è quello di una giovane donna con il labbro contratto mentre ti racconta i fatti che le sono accaduti e che alla fine del colloquio, quando il viso si bagna di lacrime, si scusa per quella debolezza».

I numeri. Secondo il Ministero del Lavoro e Previdenza sociale nel 2016 in Sardegna hanno perso l’occupazione per dimissioni volontarie 601 mamme e 80 papà. Dopo l’arrivo del primo o del secondo figlio non ce l’hanno fatta più a conciliare famiglia e lavoro. Uno dei due ha dovuto smettere di timbrare il cartellino. Una decisione presa da 39 mamme in età compresa tra 19-25 anni (2830 in tutta l’Italia). Sono 558 le donne tra 26 e 45 anni (26501 a livello nazionale) che l’ anno scorso hanno lasciato azienda, negozio o ufficio per l’arrivo in casa di una nuova creatura. Oltre 45 anni d’età sono più spesso gli uomini a decidere di stare in casa: in Sardegna rispettivamente 5 e 4, in Italia 476 contro 399.

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La scelta. «C’è un humus in questa società ancora molto androcentrica nel quale cresce la discriminazione. Scegliere se avere un figlio o lavorare – dice Tiziana Putzolu – è diventato il dilemma di molte giovani donne. Alcune professioni si sono femminilizzate e nel frattempo quei lavori si sono precarizzati, l’età della maternità è tanto più avanzata quando a voler avere un figlio è una donna con titoli di studio elevati». A seguito della maternità il reddito delle donne si abbassa anche fino al 35% rispetto agli uomini. Le discriminazioni di genere, a perdere è sempre la donna, sono anche altre. Sono legate alla carriera, ai premi, agli incentivi, ai dinieghi di aspettative, di part-time all’interno di un mercato del lavoro innegabilmente complicato, che presenta ancora alti tassi di inattività delle donne (il 48% in Sardegna contro il 32% in Emilia Romagna nel 2016) ed un elevato livello di disoccupazione (il 17,8% in Sardegna contro l’8% in Emilia Romagna nel 2016).

La grave decisione di lasciare il lavoro per dedicarsi a tempo pieno a figli e famiglia arriva entro il secondo anno di vita del bambino. Solo 16 donne sarde l’anno scorso si sono dimesse quando il figlio non aveva compiuto un anno d’età; ben 270 mamme con il figlioletto di un anno e poco più, e 212 entro due anni. 103 oltre 24 mesi dalla nascita. La donna sarda che nel 2016 si è dimessa dal lavoro per maternità ha qualifica media: 202 impiegate, 376 operaie, solo 13 quadri e nessuna dirigente. I settori produttivi di appartenenza: 306 lavoravamo nei servizi , 231 nel commercio, , 36 industria, 22 credito e assicurazioni, 76 altro.

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Basso reddito. «Le professioni di basso livello – spiega la Putzolu – sono spesso correlate anche a bassi reddito e a condizioni di lavoro disagiate. Quindi di fronte ad un periodo di maternità nel quale i supporti sociali (famiglia, nonni, asili nido) sono difficili o inesistenti e i costi alti non compensati dal margine del reddito, si preferisce abbandonare il campo. Consideriamo inoltre che il Jobs act ha portato l'indennità di disoccupazione per dimissioni volontarie a causa della maternità, sottoscritte entro un anno di vita del neonato, a due anni. Quando tra i redditi dei due coniugi a trovarsi in questa condizione è quello dell'uomo, ecco che è lui che sceglie di lasciare il lavoro a fronte di due anni di indennità di disoccupazione».


 

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