La Nuova Sardegna

Gabriele, l’eroe sardo che a Barcellona ha salvato 150 persone

di Giovanni Bua
La sindaca di Barcellona Ada Colau con Gabriele Manunta
La sindaca di Barcellona Ada Colau con Gabriele Manunta

Di Porto Torres, gestisce un locale sulla Rambla: «Ho visto il furgone e i morti». Ha subito aperto le porte e ospitato e protetto per 6 ore la folla terrorizzata

21 agosto 2017
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SASSARI. È arrivato a Barcellona tre anni fa, per trovare lavoro, serenità e soprattutto amore. E lì rimarrà, convinto che nessuna violenza potrà spazzare via la vita che scorre gioiosa e caotica sulla Rambla, nessuna paura o men che mai vendetta potranno aggiustare i danni fatti, o ridare la vita a quei corpi esamini che continua a vedere di fronte a sè ogni volta che chiude gli occhi.

L’eroe. È un sopravvissuto Gabriele Manunta, e un eroe. Lo pensano sua moglie, colombiana, conosciuta nella capitale catalana e sposata un anno fa a Stintino. Lo pensa suo zio Eugenio Cossu, primo presidente dell’Ente Parco dell’Asinara ed ex sindaco di Porto Torres, che orgoglioso ne tesse le lodi in un post su Facebook. Lo pensa la sindaca di Barcellona Ada Colau, che ieri mattina lo ha voluto incontrare nel ristorante che dirige, l’Euskal, nel cuore della Rambla, alle spalle della Boqueria, il mercato più bello e famoso di Spagna. A poche decine di metri da dove il furgone killer l’altra sera ha finito la sua folle corsa.

La sindaca. L’ha ringraziato, a nome della città, della gente, della polizia, per il suo coraggio e la sua freddezza, che gli ha permesso di tenere al sicuro oltre 150 persone accolte dentro le mura del locale di cui era responsabile durante l’attacco terroristico di giovedì. Rassicurandole, curandole, seguendone l’ordinata evacuazione, e infine lasciando il locale nel cuore della notte senza nemmeno un bicchiere rotto, un tavolino rovesciato. Per tornare a casa in una surreale passeggiata nella Rambla, piena solo di polizia, dolore e corpi senza vita.

L’attacco. «Ero fuori dal ristorante in quei drammatici minuti in cui tutto è iniziato – racconta – era l’ora del cambio turno. Aspettavo il mio collega. Ho visto il furgone arrivare dalla mia sinistra, a tutta velocità. Zigzagava, e la gente cadeva. Ho capito subito, non so perché, ho pensato a Nizza, a Parigi. E sono entrato in una sorta di lucida trance che mi ha permesso di notare una scritta sulla fiancata, di quelle che hanno i furgoni in affitto. Ho pensato che dovevo dirlo alla polizia. Poi mi sono girato verso il ristorante, è ho realizzato che da lì a poco sarebbe arrivata la gente, tanta gente. Che dovevo prepararmi ad accoglierla, e poi a chiuderci dentro».

La folla. Parla con la voce un po’ rotta Gabriele, portotorrese di 37 anni, da 10 tra Milano e Catalogna a costruire una vita. «La tensione sta arrivando – spiega – a ondate. E so che con quello che ho vissuto dovrò fare i conti». Quel giovedì però c’era solo freddezza, e coraggio. «La gente è arrivata – spiega – come pensavo. Tra persone sedute ai tavoli nei due piani del locale, e inservienti, già eravamo in 70-75. Siamo diventati 150. Ho fatto entrare chi potevo, poi ho chiuso le serrande sulla Rambla, e quelle sul retro, sulla Boqueria. Quel giorno la responsabilità del locale era mia. Non c’era nessuno a cui potessi delegare, a cui chiedere aiuto o consiglio. Ho fatto da solo».

Rinchiusi. Da quel momento iniziano ore surreali. La gente, di tutti i generi e nazionalità, è sconvolta. Basta un rumore, un bicchiere che cade, una serranda che si abbassa, per scatenare il panico. «Hanno iniziato a girare voci, di sparatorie, accoltellamenti. Io non sapevo niente di quello che stava succedendo, ma ho detto che tutto era sotto controllo, che avevo parlato con la polizia, che bisognava solo aspettare. Mi sono reso conto che un esplosione di panico sarebbe stata incontrollabile, e potenzialmente letale. Ho detto alle persone gente di mettersi più comode che potevano. Ho fatto distribuire acqua dai camerieri. Abbiamo controllato che non ci fossero feriti. Con discrezione abbiamo permesso a qualcuno di avvisare le famiglie. Io ho chiamato mia moglie, lei era a casa, l’avevo avvisata. Potevo dedicarmi alla «mia» gente senza altri pensieri».

Inginocchiate. Le serrande rimangono chiuse, ma Gabriele inizia a prendere contatti con i corpi speciali, che gli aprlano dalle vetrine. Le ore passano, un televisore acceso racconta l’orrore, la gente ascolta attonita. «A un certo punto abbiamo trovato due ragazze nel magazzino, inginocchiate, piangevano. Non volevano andare via. Poi una signora ha fatto cadere un bicchiere, ed è stato come una bomba. La gente è scattata, ho avuto paura che tutto crollasse. Poi la calma di nuovo. Io ero preso a scambiare informazioni con la polizia, a pensare a come gestire l’evacuazione».

L’evacuazione. Il giovane portotorrese ha le idee chiare, e quando dopo le 19 arriva il via libera dei corpi speciali fa andare via i clienti 20 a 20, prima gli anziani, i bimbi, attento a non dividere gruppi, famiglie. Sono i primi ad allontanarsi in tutta la Rambla, alcuni vorrebbero restare nel ristorante, dove ora si sentono sicuri.

La caccia. «Io e il personale siamo rimasti dentro per ancora qualche ora, fino a quando le squadre speciali hanno perquisito, uno a uno, tutti i locali. Ci hanno identificato e interrogato. Ho accompagnato un amico che si era fatto male al piede in un punto di raccolta per i feriti. Camminavo nella Rambla, i corpi esamini coperti sembravano finti. Le auto abbandonate con gli sportelli aperti, l’autobus di traverso, l’edicola con i giornali buttati alla rinfusa. Non so spiegare, sembrava un gioco, ma allo stesso tempo era orrendo».

Gabriele Manunta arriva a casa dalla moglie. Guardano la tv fino a tardi, poi lui crolla. La mattina dopo deve tornare alla Rambla «dovevo dare le chiavi del magazzino. Capire se il locale andava riaperto. Ma poi sono scappato al parco, con mia moglie e il nostro cane. Dovevo parlare con lei, con gli amici e i familiari. Dovevo capire come stavo».

La mia gente. Poi la telefonata dello staff della sindaca, il desiderio di incontrarlo, per ringraziarlo a nome della città, della polizia. «Ci siamo incontrati ieri mattina, è entrata in ristorante, da sola. Le ho raccontato cosa era successo, mi ha detto grazie. Mi ha detto che con il mio aiuto ho evitato panico e paura. Io ho pensato alla mia famiglia, e alla mia gente, che magari sarà orgogliosa di me. Non sono andato con lei al minuto di silenzio. Ma domani tornerò a lavoro. So che il mio cervello e il mio cuore mi chiederanno il conto prima o poi. Ma so anche che non è della Rambla che devo avere paura. Che non è con la paura, nè con l’odio, o la violenza, che sistemeremo i guai che abbiamo fatto. E che arrivano da molto più lontano di quel furgone bianco».

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