La Nuova Sardegna

Agricoltura, il business del tartufo nell'isola: una risorsa in cui credere

di Antonello Palmas
Agricoltura, il business del tartufo nell'isola: una risorsa in cui credere

Cresce l’interesse per il settore grazie all’Associazione Tartufai della Sardegna. Dalla formazione dei cuochi alle regole per una raccolta che rispetti il prodotto

03 settembre 2017
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SASSARI. Non fa parte della cultura sarda. Eppure gli ancora pochi esperti isolani sono ben a conoscenza non solo della presenza del tartufo nel sottobosco della nostra regione, ma anche del fatto che la qualità non ha nulla da invidiare a quella di altre aree. Anzi. «Sì, esiste la convinzione diffusa che i tartufi qui non ci siano – dice il presidente della neonata Associazione dei tartufai di Sardegna, Enrico Lancellotti, da Domusnovas – e stiamo lottando per cambiarla. Una questione culturale. Il tartufo è un fungo ipogeo (sotterraneo, ndc) e nell’isola c’è solo la tradizione della raccolta di una terfezia, la tuvura ’e arena, nel Campidano e nel Sulcis. Ma la raccolta del tartufo non ha aveva mai preso piede. Ha iniziato 30 anni fa il laziale Paolo Fantini, Laconi».

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Il ruolo dei cuochi. Da allora le cose sono cambiate, la strada è stata aperta e le prospettive sono più interessanti di quanto appaia, come dimostra la nascita di un’associazione. «Vogliamo collaborare con i cuochi – spiega Lancellotti –: la ricerca del tartufo ha senso se chi li utilizza conosce le caratteristiche del prodotto sardo». E sono in corso diverse sperimentazioni, come quella di Pranteddu per la produzione della carapigna, la granita made in Aritzo. «Inoltre stiamo cercando di sposare le eccellenze dei prodotti alimentari sardi e il tartufo – dice Lancellotti –. A Laconi c’è l’azienda “Isola dei Sapori” di Marco Carta che ha cominciato a lavorare sulla trasformazione del tartufo, vendendolo fresco o con confetture e prodotti sott’olio. Alla nostra prima assemblea a Sennori un caseificio ha prodotto un formaggio al tartufo, La Genuina di Ploaghe ha realizzato salumi al tartufo».

Partite tagliate. Insomma, l’interesse si sta estendendo, ma l’obiettivo principale è evitare che l’oro nero sardo possa essere sfruttato senza che l’isola ne abbia un rientro. «Succede che il tartufo sardo venga raccolto e venduto in continente sotto altri nomi, per poi ritornare dal Continente – racconta il presidente –. A detta di alcuni commercianti nazionali, pare che sia particolarmente profumato rispetto a quelli del resto d’Italia, per cui viene usato per per “tagliare” partite di tartufi provenienti da zone, mescolandolo con esse per accentuarne l’aroma. Questo avviene soprattutto per lo Scorzone».

Mai senza cani. E invece è l’ora che i sardi si accorgano della risorsa che hanno tra le mani (o meglio sotto i piedi...): può aiutare l’economia sarda? «Certo – risponde Lancellotti –. Nei 5-6 mesi del periodo di raccolta si può mettere insieme un migliaio di euro ogni mese, non diventi ricco ma migliori sicuramente il tuo stile di vita. Se col Bianchetto si guadagnano 500 euro al chilo, col Nero pregiato superiamo gli 800: dipende dalla pezzatura. Un’azienda che introduce il tartufo fa crescere in maniera esponenziale il valore dei suoi prodotti». C’è il rischio che si facciano errori nella ricerca? Già succede. Hanno cominciato già nel Sarcidano: non usano i cani ma la zappa e così fanno due danni: distruggono la pianta presso le cui radici crescono i tartufi (che così nel giro di 4-5 anni non daranno più tartufi); e poi solo il cane sa selezionare il tartufo maturo al punto giusto. Prelevarlo quando non è maturo significa coglierlo senza sapore e aroma, insomma significa vendere delle... pietre. E questo danneggia il mercato e l’immagine del prodotto nostrano, spingendo i ristoratori ad acquistare altrove».

Chi non ci crede. L’impressione è che la politica non creda nelle potenzialità del settore: «La Regione non ha mai fatto sua la legge quadro nazionale sulla raccolta dei tartufi dell’85 e le varie proposte di legge regionale non sono mai passate. È un peccato – dice Lancellotti –. Ho apprezzato come funzionano le cose fuori dall’isola, le prospettive economiche e turistiche che apre il tartufo in molte zone. E in Sardegna i tartufi sembrano abbondare nelle zone più depresse: Sarcidano, Sulcis-Iglesiente, Ogliastra, dove il tartufo potrebbe divenire per molti una fonte di reddito aggiuntiva. Anche perché attira turismo e innesca una filiera. tra sagre, gente che si sposta, attrezzature, cani.

Il futuro è nelle tartufaie. La siccità non aiuta, come per tutti i funghi occorre la pioggia. «La soluzione potrebbe essere la tartufaia artificale – afferma Lancellotti – come già accade altrove e si è tentato di fare in passato anche nell’isola ma commettendo errori anche a causa delle scarse conoscenze scientifiche: ovvero impianti irrigati con piante già inoculate col tartufo (mycorrizate). Ecco, una delle attività che la Regione dovrebbe fare è promuoverle, inserendo nel Psr (Piano di sviluppo rurale) delle misure apposite. In altre realtà già lo fanno. Se fosse stata sfruttata a questo proposito la legge 20/80 con cui furono finanziati rimboschimenti oggi avremmo probabilmente diverse industrie nel settore e gli agricoltori avrebbero un reddito aggiuntivo. E poi la tartuficoltura si sposa bene con altre attività: si fa un rimboschimento, si mette l’erbaio, si pascolano le pecore e si raccolgono i tartufi». Che i sardi stiano calpestando un tesoro senza accorgersene?

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