La Nuova Sardegna

«Non conoscere la legge non scagiona i consiglieri»

di Mauro Lissia

Ogni spesa di denaro pubblico dev’essere giustificata o scatta il reato di peculato Il giudice Grandesso: «Gli onorevoli si sono sottratti a questo obbligo»

16 settembre 2017
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CAGLIARI. Ogni spesa di denaro pubblico dev’essere spiegata e documentata, ogni euro dei contribuenti va destinato ad attività istituzionali di interesse generale, non può essere il consiglio regionale a stabilire come impiegare le risorse economiche disponibili senza una verifica precisa e tempestiva delle ragioni. I motivi della sentenza con cui lo scorso 20 febbraio il tribunale ha condannato per peculato 13 consiglieri ed ex consiglieri regionali seguono la strada indicata dalla Corte di Cassazione e confermano pienamente la linea tenuta dalla Procura nella sequenza di procedimenti sull’uso illegale dei fondi destinati ai gruppi politici regionali. La citatissima delibera del 1993 che esonerava gli onorevoli dalla rendicontazione, la prassi osservata per decenni tra i consiglieri sardi, l’autonomia statutaria e la convinzione diffusa che i parlamentari sardi godessero di una sorta di immunità finanziaria soccombono di fronte al codice penale: in mancanza di giustificazioni certe si parla di appropriazione e se un pubblico ufficiale si appropria di denaro pubblico si rende responsabile di peculato. Scrive il giudice relatore Mauro Grandesso: «Esiste un obbligo cogente e che investe tutti coloro che, rivestendo una pubblica funzione, maneggiano denaro pubblico, di rendere il conto della gestione o della spesa». Un obbligo al quale - a leggere la sentenza - si sono sottratti in un modo o nell’altro tutti gli onorevoli regionali del gruppo misto (legislatura 2004-2009) sotto processo tranne l’olbiese Giommaria Uggias, che seppure tardi è stato in grado di dimostrare il fine pubblico delle sue spese. Gli altri hanno incassato ogni mese 2500 euro e li hanno spesi a piacimento «considerandoli - ha commentato il giudice - una sorta di integrazione all’indennità». Tutti tranne Paolo Maninchedda, mai imputato, che - ricorda il tribunale - ha scelto di non maneggiare denaro pubblico lasciando che ogni spesa passasse per la tesoreria del gruppo.

Nelle cento pagine dei motivi il giudice Grandesso esamina una per una le posizioni degli imputati, che nell’esame giudiziario finiscono per assomigliarsi, tra pranzi e cene nei migliori ristoranti, viaggi a lungo raggio e fantomatici collaboratori pagati invariabilmente coi fondi del gruppo politico: Giuseppe Atzeri (condannato a 5 anni e mezzo), Mario Floris, Sergio Marracini e Maria Grazia Caligaris (4 e mezzo), Oscar Cherchi e Raffaele Farigu (4 anni), Carmelo Cachia e Salvatore Serra (3 anni e 10 mesi), Alberto e Vittorio Randazzo (3 anni), Raimondo Ibba, Pierangelo Masia e Salvatore Amadu (2 anni e due mesi) non sono riusciti a portare ai giudici documenti utili per sfuggire alle accuse. Al contrario «le spese documentate dagli imputati – scrive Grandesso - non integrano i caratteri delle spese ammissibili, in alcun modo interessando di volta in volta la politica del gruppo ovvero una spesa di rappresentanza dunque riferibile al gruppo». Nel ragionamento giuridico del tribunale la buona fede non conta, perché «ad escludere il dolo (la volontà di commettere il reato, ndr) non rileva l’eventuale errore del pubblico ufficiale». Scrive ancora il magistrato: «L’illegittimità della destinazione del denaro, anche se imputabile ad ignoranza dell’agente sui limiti dei propri poteri, non si risolve in un errore di fatto su legge diversa da quella penale, ma costituisce errore o ignoranza della legge penale e come tale non vale a escludere l’elemento soggettivo del reato di peculato, che consiste nella coscienza e volontà di far proprie somme di cui il pubblico ufficiale ha il possesso per ragioni del suo ufficio».

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