La Nuova Sardegna

Un consorzio sardo alla guerra del grano: «Il Cappelli è nostro»

di Antonello Palmas
Un consorzio sardo alla guerra del grano: «Il Cappelli è nostro»

Ditta emiliana si aggiudica i diritti sulla varietà pregiata. Ma la riscoperta è merito del lavoro trentennale nell’isola

05 ottobre 2017
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SASSARI. La Sardegna ha seminato bene ma c’è il rischio che a prendersi il raccolto siano altri. Sta facendo discutere la vicenda del grano Cappelli, una varietà di frumento dalle caratteristiche eccezionali che proprio la testardaggine di un isolano, Santino Accalai, aveva risollevato dall’oblio cui l’aveva costretto il mercato, per poi scavarsi una nicchia sempre maggiore e finire per guidare una vera filiera. E ora il Consorzio regionale presieduto dalla figlia Laura, nato qualche anno fa per disciplinarne l’utilizzo, lancia il grido d’allarme: ci tolgono la possibilità di continuare a lavorare su un prodotto che noi abbiamo rilanciato. Una società semenziera di Bologna, la Sis, si è infatti aggiudicata un bando che le dà il diritto in esclusiva sulla varietà nata nel 1915 grazie al genetista Nazareno Strampelli e dedicata a Raffaele Cappelli, senatore del Regno d'Italia, che, negli ultimi anni dell'800, avviò le trasformazioni agrarie in Puglia. Un grano che andò forte in Italia nella prima metà del ’900 ma che fu poi abbandonato per varietà più convenienti.

A spiegarlo è proprio Laura Accalai: «No, il Cappelli non è un’esclusiva sarda – dice –, è coltivato in tutta Italia. Ma questo è possibile perché è ripartito proprio dall’isola. Oltre 30 anni fa mio padre Santino, che aveva fondato la Selet, ditta sementiera con licenza di certificare tutti i semi di cereali o legumi, si fece dare dei chicchi di grano Cappelli da un anziano contadino di Nurri. Ci vollero parecchi anni per ottenere una buona resa. Nel ’97 ecco i primi 50 chili di Cappelli con certificazione, basata su controlli in campo, purezza, germinabilità, qualità del prodotto. Fu preso per matto, tutti volevano varietà più remunerative». Ma aveva ragione lui.

«Da allora sino al 2007 – racconta Laura – questo lavoro di sviluppo e divulgazione babbo lo fece senza un contratto col centro di ricerca che detiene i diritti sulle varietà, il Crea di Parma. La firma avvenne nel 2007. Nel frattempo è cresciuto l’interesse per i grani antichi, per il biologico, per la qualità. Molti hanno cominciato a coltivare Cappelli. E tutti sanno chi lo ha riscoperto». Ma nel 2016, scaduto il contratto di esclusiva con Selet, viene indetta una manifestazione di interesse: «Vi abbiamo preso parte anche noi della Selet – spiega la Accalai –, abbiamo passato la prima fase, ma il secondo step prevedeva l’accettazione di un prezzo di royalties superiori di quasi il 500 per cento rispetto a quelle che pagavamo sino a quel momento al Crea. Cifre che non ti consentono di stare sul mercato. Non abbiamo più risposto, da quel momento silenzio. Poi, nel maggio scorso, ecco d’improvviso la notizia dell’operazione di recupero del vecchio grano Cappelli da parte di una ditta bolognese, la Sis, del gran lavoro che avrebbero fatto...» Una beffa.

Gli emiliani si sono aggiudicati i diritti sul Cappelli. «È incredibile – commenta Laura –. Non pretendiamo di essere gli unici depositari, ma non si può non tenere conto del nostro lavoro trentennale, della filiera, controllatissima dalla semina alla tavola, che ora viene bloccata. Mille ettari in Sardegna sono coltivati a Cappelli e presto sarebbero raddoppiati, cento realtà qui ci basano la loro economia. Molti ci chiamano, ma non potendo noi più certificare il prodotto stanno pensando di passare ad altro». Un mondo di coltivatori, panifici, agriturismo, pasticcerie perde di colpo il suo punto di riferimento. «Cappelli copre l’80% del mercato del biologico» ricorda la Accalai. Che fare? «Venerdì (domani, ndc) incontreremo l’assessore regionale all’agricoltura Caria. Gli illustreremo la faccenda, vorremmo che interloquisse in tempi brevi col ministero, agendo sugli aspetti legali. Noi non siamo quelli dei forconi, ma tutto questo, semplicemente, non è giusto».

©RIPRODUZIONE RISERVATA
 

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