La Nuova Sardegna

Paolo Fresu: «Sullo ius soli una battaglia per i diritti»

di Costantino Cossu
Paolo Fresu: «Sullo ius soli una battaglia per i diritti»

Il musicista spiega perché una legge serve «Le culture diverse, una grande ricchezza» 

11 ottobre 2017
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«E’ una battaglia di civiltà ma è anche una battaglia culturale, un rinascere memori delle nostre migrazioni del Novecento». Così, legando il mondo alla Sardegna, Paolo Fresu spiega, in questa intervista alla “Nuova”, il suo impegno a favore dell’approvazione della legge sullo ius soli, la sua adesione alla campagna lanciata nei giorni scorsi da Luigi Manconi: un digiuno collettivo per sbloccare il percorso del provvedimento in parlamento.

Quali sono le motivazioni della sua adesione alla mobilitazione per l’approvazione della legge?

«La mia non è una motivazione politica. E’ una motivazione sociale e umana che prende spunto da una riflessione da libero cittadino del mondo. I bambini e le bambine nati in Italia o arrivati da piccolissimi, figli di genitori provenienti da altre aree del pianeta ormai di fatto italiani (lavorano, producono, studiano e pagano le tasse nel nostro Paese), hanno il diritto di essere non solo parte di una comunità, ma di viverla e fruirla in modo paritario, come tutti. E noi dobbiamo offrire gli strumenti affinché questo avvenga, non solo con le parole ma con i fatti, dimostrando la nostra capacità di accogliere. Innalzare muri, come si sta facendo in molte altre parti del mondo, è sbagliato».

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In genere si dice che i migranti possono essere una risorsa economica, ma le grandi migrazioni non sono anche una opportunità di dialogo tra mondi simbolici, tra culture?

«Ne sono convinto. Da uomo e da artista. Penso che la musica afro-americana, ad esempio, non sarebbe nata se, ai principi del secolo scorso, non ci fossero state le grandi migrazioni dall’Europa (e dall’Italia) verso gli Stati Uniti, dove la nostra cultura si è incontrata con quella di derivazione africana. A volte si è anche scontrata, ma è nel dialogo serrato che nascono le nuove cose… come il jazz».

Eppure sulla presenza dei migranti si specula per creare paura in vista di vantaggi elettorali. Le sembra giusto?

«E’ ingiusto speculare sui migranti. Per qualsiasi cosa. Stiamo speculando sulle loro vite e su quelle dei loro figli innocenti, che spesso non riescono a trovare un approdo sicuro, che non è esclusivamente geografico. E non parlo solo dei migranti africani. Di fronte alla storia futura e alle nuove generazioni la nostra responsabilità è grande».

In tempi di crisi economica la tentazione di scatenare la guerra tra poveri – tra gli italiani e gli europei impoveriti dalla crisi e chi fugge dalla fame – può essere molto forte. Con quali rischi?

«Il rischio è di indebolirci vicendevolmente. E’ un conflitto tra culture, ma è soprattutto un conflitto economico: i ricchi sempre più ricchi e i poveri sono sempre più poveri. Se è la storia a ripetersi, è indubbio che il secolo appena trascorso abbia avuto obiettivi altri che, alla fine, non sono stati raggiunti. In una grande orchestra si suona tutti insieme e la bellezza del suono sta nel fatto che ognuno è diverso, contribuendo ognuno alla ricchezza del collettivo. Senza scomodare i Berliner Philharmoniker o l’Orchestra della Scala, io questo l’ho imparato da ragazzino suonando nella banda del mio paese, Berchidda. Se uno solo suona male oppure rema contro, la musica si fa aspra e neanche il più grande direttore riesce a portare l’orchestra alla fine della partitura. Claudio Abbado quando chiudeva la “Nona sinfonia” di Gustav Mahler, l’opera più estrema del compositore viennese, chiedeva un minuto di silenzio per far sì che ognuno ritrovasse l’altro. L’applauso arrivava dopo. Chissà che in questo momento storico non serva ritrovarci tutti anche nel silenzio e nella bellezza. So che molti diranno che queste sono cose che servono a poco, cose che fanno parte della sfera della poesia; ma mi domando quanto invece l’apparente realismo dell’affannosa ricerca economica e di benessere siano serviti a salvare l’uomo, ad arricchirlo e a migliorarne la condizione».

In Europa rinasce il razzismo. Artisti e uomini di cultura possono restare in silenzio?

«Assolutamente no! Nessuno deve stare in silenzio. Che si sia artisti, autisti di autobus o pastori. Ed è la memoria a doverci guidare. Se non quella nostra, quella dei nostri padri e dei nostri nonni. Proprio in questi giorni ho visto su Internet da Sao Paulo, dove ora mi trovo per un concerto, un’intervista a Camilleri che racconta della Torino degli anni Sessanta, quando si affiggevano cartelli con su scritto “Non si affitta ai meridionali”. Anch’io ricordo, negli anni Settanta, un avviso sulla vetrina di un bar della costa est della nostra isola che diceva: “Vietato l’ingresso ai sardi”. Ecco quanto l’ignoranza di alcuni può dividere il mondo ed ergere muri e barriere assurdi. Se Albert Einstein diceva di appartenere all’unica razza che conosceva, quella umana, qualcuno ha scritto che il fascismo si cura leggendo. E il razzismo viaggiando e conoscendo gli altri».

Dalla Sardegna, che è stata terra di grande emigrazione e insieme terra verso la quale si sono consumate non poche discriminazioni, che contributo può venire alla costruzione di una cultura del dialogo e dell’accoglienza?

«La Sardegna può essere il ponte ideale tra l’Africa e l’Europa. A pensarci bene, in anni non sospetti siamo stati tra i primi a costruire il primo ponte comunicativo di Internet, attraverso aziende che avevano, e che hanno tuttora, menti e server nell’isola. Abbiamo quindi un ruolo importante e strategico anche per la politica del nostro Paese, e in alcuni casi siamo stati i precursori di tendenze nazionali e di cambiamenti importanti. Nella nostra isola si sono consumate molte discriminazioni e altre si stanno consumando in questo momento. Questo è un motivo in più per vedere la discriminazione come un atto da cancellare, proprio perché la discriminazione l’abbiamo vissuta in prima persona. Nei secoli siamo stati violati da tutti, ma non siamo rimasti con le mani in mano. La nostra ricchezza di lingua, di musica, di cibo, di arte è il risultato della stratificazione di scambi e di conoscenze, prima arrivate dal mare, poi dai cieli e oggi grazie alla tecnologia. Molti venivano per rubare e per saccheggiare, ma noi apprendevamo e crescevamo. Imparavamo pur senza viaggiare, grazie al viaggio degli altri. Potrebbe essere, questa, una buona metafora dell’incontro e dell’inclusione».

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