La Nuova Sardegna

I veleni tra i carabinieri di Bonorva all’origine della maxi indagine

di Daniela Scano
I veleni tra i carabinieri di Bonorva all’origine della maxi indagine

Nell'aprile del 2016 scattò una comunicazione di garanzia nei confronti di due marescialli e cinque militari del nucleo radiomobile della compagnia

17 novembre 2017
3 MINUTI DI LETTURA





SASSARI. “Traditore” era la parola più gentile tra quelle attinte dal più scurrile gergo da caserma. Tra l’inverno del 2014 e la primavera del 2016, parlando liberamente al telefono con la convinzione che l’uniforme li proteggesse dalle intercettazioni, sette carabinieri sfogarono la loro rabbia contro un sottufficiale colpevole di avere tradito un malinteso patto di fratellanza tra colleghi. Compresi quelli che sbagliano e che aggiustano le cose raccontando bugie.

[[atex:gelocal:la-nuova-sardegna:regione:1.16133897:gele.Finegil.StandardArticle2014v1:https://www.lanuovasardegna.it/regione/2017/11/17/news/il-caso-carabinieri-trasferiti-del-sette-indagato-a-sassari-1.16133897]]

Nel caso specifico, si trattava di due uomini in divisa che avevano falsamente accusato di resistenza a pubblico ufficiale un innocente che in realtà aveva subito un arresto arbitrario e che aveva incassato un pugno mentre era ammanettato. Brutta storia di inconciliabili verità che, in due caserme del Meilogu, aveva scoperchiato un calderone ribollente di odio nei confronti del collega che aveva osato denunciare l’abuso. Ma anche di chi, compaesano della vittima, era intervenuto per porre fine a un abuso e aveva successivamente confermato il racconto del luogotenente.

I militari non si limitarono agli insulti ma, senza sapere di essere intercettati, progettarono vendette: ritorsioni, controlli indebiti, calunnie. Nessuno saprà mai se il progetto sarebbe andato in porto perché la magistratura lo fermò prima. L’episodio, accaduto a Pozzomaggiore mentre era in corso l’indagine principale del comando provinciale dell’Arma sulle presunte condotte illecite di uomini in divisa, nell’aprile del 2016 fece scattare una comunicazione di garanzia nei confronti di due marescialli e di cinque militari del nucleo radiomobile della compagnia di Bonorva e della stazione carabinieri di Mores.

Per tutti venne chiesta, proprio dal sostituto procuratore Giovanni Porcheddu, titolare della “inchiesta madre”, la possibile applicazione dell’articolo 115 del codice penale che ferma sulla soglia i gruppi che si stanno accordando per commettere un reato. Non un processo alle intenzioni, che non è ovviamente previsto dall’ordinamento giuridico, ma lo stop indispensabile per fermare piani inquietanti che in genere maturano negli ambienti della criminalità organizzata.

L’episodio si era verificato fuori da un bar pieno di gente. Un uomo era stato fermato da una pattuglia, strattonato, ammanettato e colpito con un pugno da un carabiniere. Tutto davanti a testimoni, intervenuto per difendere il malcapitato che non aveva fatto niente. Nella piccola folla indignata c’era un carabiniere, compaesano della vittima. I colleghi si aspettavano da lui che chiudesse un occhio, invece non andò così. Il luogotenente raccontò in una dettagliata relazione di servizio come erano andate le cose, smentendo clamorosamente il rapporto redatto dai due militari su un arresto per resistenza a pubblico ufficiale. I due militari del nucleo radiomobile della compagnia di Bonorva finirono sotto inchiesta per sequestro di persona, falsità ideologica. Per questo, parlando al telefono del “traditore”, i militari coinvolti e cinque loro amici progettavano vendetta nei confronti del luogotenente, dei suoi familiari e di tutti i privati cittadini che avevano contribuito a far incriminare i loro amici. L’idea era quella di punire tutti i “nemici” e, per evitarlo, la Procura intervenne applicando norme scritte per fermare soggetti socialmente pericolosi.

©RIPRODUZIONE RISERVATA
 

In Primo Piano
Elezioni comunali 

Ad Alghero prove in corso di campo larghissimo, ma i pentastellati frenano

Le nostre iniziative