La Nuova Sardegna

La missione di suor Caterina: «La clausura è la mia gioia»

di Enrico Carta
La missione di suor Caterina: «La clausura è la mia gioia»

Oristano, il racconto di una clarissa che vive nel monastero di Santa Chiara «Preghiamo e lavoriamo, anche con Facebook. E abbiamo contatti con il mondo»

08 gennaio 2018
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ORISTANO. Per chi arriva da fuori, la prima cosa bella è il silenzio di quell’angolo di mondo. Un’enclave di medioevo dove anche i rumori delle poche macchine che passano in quel tratto del centro storico di Oristano faticano a farsi sentire. Nemmeno loro sembrano avere il permesso di entrare nel piccolo scrigno, custode ancora oggi di un passato che respira. Secoli andati che si perpetuano grazie alle architetture. Forme che riportano alla gloriosa epopea dei giudici d’Arborea e che vivono col battito dei dieci cuori che quasi invisibili inseguono giorni identici gli uni agli altri. Ore scandite da una routine quotidiana quasi inscalfibile.

Eppure, nell’anno del Signore 2018, nel monastero di clausura di Santa Chiara anche la modernità trova tra le grate un pertugio attraverso il quale affacciarsi al mondo esterno. Dentro il convento è rimasto un manipolo di suore, sempre meno. La più anziana, Suor Maria Teresa, di anni ne ha 97; la più giovane, Suor Caterina Quartu, ne ha invece 42 e da un decennio esatto ha fatto la sua scelta. Avvolta dall’abito sacro così la interpreta: «Non è una scelta più difficile di altre, è solo una scelta che va confermata ogni giorno. La mia è maturata col tempo e non senza contrasti interni, con la preghiera assumeva un ruolo sempre più importante. Alla fine ho capito che cercavo la felicità piena e fuori dal monastero mi sentivo realizzata solo in parte».

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È così che ha maturato la decisione di fare il suo ingresso nell’ordine religioso delle clarisse per andare incontro a una vita che solo in pochi osano ancora affrontare. È una vita ancora oggi scandita quasi esclusivamente dalla preghiera, con qualche apertura in più rispetto a qualche decennio fa, quando il giornalista Sergio Zavoli fece per la prima volta ingresso in un convento di clausura con le telecamere al seguito. «I rapporti con l’esterno sono più frequenti rispetto al passato – spiega Suor Caterina –, ma dal convento si esce raramente. Capita solo quando ci sono le elezioni o le visite mediche e, se ce lo chiede l’arcivescovo, in occasione della festività della Candelora».

Il resto del tempo è fatto di giornate che devono ripetere uno spartito che comincia, si sviluppa e finisce sempre con le stesse note: quelle dell’intimo rapporto con la religione e della forte coesione che le consorelle instaurano nella loro piccolissima comunità. «Estate o inverno, alle 5.30 del mattino suona la sveglia e andiamo in chiesa per le lodi a cui fanno seguito le meditazioni e la messa. Alle 9 facciamo la colazione, poi sbrighiamo gli uffici nelle nostre celle. A mezzogiorno e mezzo c’è il pranzo cui seguono i momenti di lavoro, la cura delle sorelle più anziane o malate, la cura del piccolo orticello che da qualche tempo abbiamo preso a coltivare per soddisfare le piccole esigenze del convento. Alle cinque del pomeriggio comincia l’ora dello studio attraverso la quale approfondiamo la parola del Vangelo, prima di dedicarci ai vespri e quindi alla cena che precede la ricreazione che facciamo tutte assieme sino alle 21.15 quando recitiamo la compieta che è l’ultimo momento della nostra giornata».

Intanto, fuori, il mondo cammina alla velocità della luce, tra frenesie e gesti altrettanto ripetitivi, soltanto differenti rispetto a quelli di chi ha scelto la preghiera. Eppure i due mondi riescono ancora a comunicare, anzi l’osmosi tra il monastero e la vita laica è maggiore di quanto si possa pensare. Un tempo esisteva solo la ruota quale mezzo di contatto con l’esterno, oggi non è più così. «La clausura non è più solo la grata che ci separa dagli altri – dice Suor Caterina –, la clausura è qualcosa che ognuno vive nel rapporto col Signore ed è per questo che, senza snaturare la nostra regola, abbiamo avuto di recente delle aperture verso l’esterno. L’attenzione della città verso di noi è aumentata con la mostra fotografica “La luce delle clarisse” che ci ritraeva in vari momenti della vita a Santa Chiara. Da quel momento in tanti hanno iniziato a interessarsi a noi, la mostra è stata come una specie di amplificatore». E poi c’è la radio, quasi sempre sintonizzata su Radio Maria «e mai su stazioni che trasmettono musica rock»; c’è qualche momento per la tv «per lo più per assistere alle messe che vi vengono trasmesse»; e c’è il computer attraverso il quale Suor Caterina cura la pagina Facebook. «È una seconda ruota, una ruota mediatica virtuale. Attraverso essa comunichiamo con la città e spieghiamo le attività che facciamo. Abbiamo una rubrica che contiene riflessioni sulla parola del Vangelo e coi messaggi le persone ci comunicano le loro riflessioni o ci chiedono di pregare per loro. Se prima la clausura era solamente il non farsi vedere, oggi la clausura è anche l’andare incontro ai bisogni delle persone. Chi pensa che sia qualcosa fuori dal tempo sbaglia, perché la preghiera non ha mai fine».

Eppure questi cambiamenti sembrano non bastare e il convento diventa sempre meno frequentato «col rischio che si chiuda. Un po’ come succede per qualsiasi altro posto di lavoro. Ma io insisto e dico che la mancanza del mondo esterno non pesa affatto. Chi opta per il convento fa una scelta in fondo non differente da quella di chi si sposa. Cambia solo il modo di evolversi delle cose in base alla strada che ciascuno intraprende nella propria vita e poi abitiamo in un luogo bellissimo, un gioiello architettonico. Si è davvero sicuri che sia meglio la frenesia dell’esterno? Quella per cui non ci si accorge più dell’altro, di chi ci sta a fianco. Si è davvero sicuri che sia migliore una vita in cui non ci si ferma un secondo per riflettere? Il poco rispetto per l’altro è frutto dell’affermazione di se stesso a qualsiasi costo. L’altro non è più considerato persona, diventa solamente un ostacolo verso il proprio obiettivo e i social network ampliano questo atteggiamento. Lì si nota tantissimo che molti scrivono come se le parole non avessero un loro significato profondo e sempre valido. È come se ci si stesse rivolgendo a qualcuno che non esiste o al quale non diamo il valore di persona».

Bisogna andare. Il ferroso rumore della chiave che gira nel portone della chiesa sigilla due mondi. Pochi metri più in là, una persona suona la campanella e chiede udienza attraverso la ruota. Risponde una voce anziana, mentre tre strade oltre le auto fanno già sentire il loro canto stonato. Il tempo sino a poco prima dilatato, ora scandisce secondi che corrono più veloci, di nuovo frenetici.
 

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