La Nuova Sardegna

Giacomo, morto in scalata: la vita è una sfida alla ricerca della felicità

Luigi Soriga
Giacomo, morto in scalata: la vita è una sfida alla ricerca della felicità

Gli amici ricordano l'alpinista sassarese travolto da una lastra di ghiaccio

23 febbraio 2018
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SASSARI. Certi silenzi si adagiano bene nella pace della natura. Quelli di Giacomo Deiana non erano mai vuoti di parole, erano soprattutto densità introspettiva. Per gli amici era bello affacciarsi nella sua isola di introversione, sempre con tatto, senza mai oltrepassare quei confini di intimità che lui tracciava con uno sguardo o con un sorriso.

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Molti scalatori, alpinisti, freeclimber, trovano la propria dimensione appesi a una parete. Piantano le parole e i pensieri acuminati con la stessa precisione e parsimonia con cui conficcano i chiodi nella pietra. Così era Giacomo Deiana: dove passava lasciava il segno.

Quando Marco Corda ha saputo della sua morte gli si è gelato il sangue. «È come se mi avessero strappato un pezzo di me. Eravamo cugini, ma era più di un fratello».

Capita quando metti la tua vita nelle mani di qualcun altro. Quella fune che ti tiene uniti a penzolare nel vuoto, diventa un cordone ombelicale, e ti lega per sempre.

Mercoledì mattina, in quell’ultima scalata nella cascata di ghiaccio a Cogne, non erano insieme. Marco preferisce le pareti più calde della Sardegna, Giacomo aveva alzato un tantino l’asticella, spostando l’adrenalina sulle vertigini dell’alpinismo. «Era scritto da qualche parte che dovesse andare in quel modo. Le condizioni erano perfette, ho parlato con i suoi compagni di cordata e non dovevano esserci rischi. Poi Giacomo aveva testa e stile, era un ballerino della roccia, era bello da vedere nel suo gesto atletico. Aveva grande esperienza. Se quella lastra di ghiaccio si è staccata, vuol dire che così era scritto nel suo destino». Sono cresciuti insieme: «Da bambini ci sfidavamo a chi si arrampicava più velocemente, a chi riusciva ad arrivare più su». E la leggerezza e il coraggio per sporgersi e guardare il mondo dall’alto in basso li aveva eccome. Scrive su Fb il suo amico Marco Marrosu: «Vedevo Giacomo come una delle promesse per il mondo dell'arrampicata, non solo della Sardegna. Tutti ci aspettavamo qualcosa di grande da lui ed "in silenzio" stavamo ad aspettare. Non si vantava, rimaneva modesto e semplicemente seguiva la ricerca della sua perfezione».

È riuscito a scalare il Camillo Sur e il Cerro Torre in Patagonia, avrebbe potuto saturare le chiacchierate tra amici con i racconti delle sue imprese. Di sè non rivelava quasi nulla, per riservatezza, per pudore, e soprattutto per umiltà. «Bisognava insistere molto e avere confidenza per indurlo a parlare delle sue esperienze». Preferiva di gran lunga stendere un’amaca tra due tronchi, e “silenziare”. «Gli piaceva ascoltare gli altri, poi ti stupiva con delle frasi che sembravano davvero scolpite nella pietra – dice Marco Corda – era un tipo speciale, ed è difficilissimo descrivere Giacomo a parole. Era Giacomocentrico. Chi l’ha conosciuto si è inevitabilmente innamorato di lui». Però era selettivo, andava dritto per la sua strada, che delineava con testardaggine così come tracciava percorsi immaginari sulle falesie. Il suo traguardo in fondo era semplice: la felicità e l’arricchimento interiore. «Se qualcosa non gli piaceva, lui sbatteva la porta e se la lasciava dietro. Per questo viaggiava per il mondo, in Australia, in Patagonia, inseguendo il proprio benessere. Si manteneva facendo lavoretti di ogni tipo, soprattutto in campagna. E i soldi li metteva da parte per proseguire il suo viaggio. Era una persona onesta con se stessa. Se l’è goduta, ha fatto sempre ciò che l’ha reso felice». Aveva una fidanzata, ma più che mettere radici era più probabile che avrebbero continuato a scoprire insieme il mondo.

Però la Sardegna gli era rimasta dentro. Magari stava lontano otto mesi, ma il senso di appartenenza era indelebile: «Aveva scalato per primo una parete in Patagonia – dice Marco Corda – e l’aveva battezzata “Anonima Sequestri. A Dorgali invece, sul Monte Oddeu, abbiamo chiodato un passaggio: un varco impervio, che nessuno aveva mai aperto. Ci abbiamo messo giorni, lui era la mente, io il braccio. Poi ultimata l’impresa, c’era da dare il nome. E l’ha scelto Giacomo: l’abbiamo chiamato così: “Se vedi grigio, sposta l’elefante”. Un antico detto indiano che sintetizza anche la sua filosofia di vita: ogni difficoltà si può superare. Con coraggio, ostinazione, testa». Il suo sogno era quello di diventare una guida alpina, e magari continuare a piantare con orgoglio la bandiera dei quattro mori sui cucuzzoli del pianeta, o aprire strade ancora inesplorate. Era uno spirito libero, con tanti amici che lo aspettavano sempre. Molti di loro in questo momento piangono e brindano, con una birra, alla sua. A Marco Corda, invece, piace ricordarlo così: insieme, esausti, sulla cima del monte Oddeu: «Solo chi si abbraccia in vetta, capisce cosa sia un legame fraterno e la felicità».
 

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