La Nuova Sardegna

Giorgio Carta: "Sardegna, serve più autonomia aggiornata ai nostri tempi"

di Alessandro Pirina
Giorgio Carta: "Sardegna, serve più autonomia aggiornata ai nostri tempi"

L’ex parlamentare e sottosegretario al governo: «Le norme speciali volute per renderci uguali alle altre regioni L’isola deve essere messa in condizione di poter interloquire con lo Stato e la Ue»

09 aprile 2018
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SASSARI. Ha combattuto per l’autonomia prima da Cagliari poi da Roma. E anche ora che non ha più cariche elettive continua a lottare per la sua Sardegna da presidente degli ex parlamentari isolani. Giorgio Carta, ex assessore regionale, ex deputato, ex sottosegretario con Amato e Ciampi, ha attraversato da protagonista Prima e Seconda repubblica. E adesso, di fronte all’incombere della Terza, si sofferma sull’importanza della autonomia per la Sardegna. Una condizione che, però, l’isola deve riuscire ad adeguare ai mutamenti della società. A un Paese che non fa più riferimento solo a Roma ma soprattutto a Bruxelles.

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Carta, sono passati 70 anni dall’approvazione dello Statuto: è ancora attuale parlare oggi di autonomia?

«Assolutamente sì, perché il discorso autonomia non va visto con caratteristiche di isolazionismo o isolamento. Autonomia significa avere poteri reali. Quello tra Stato e Regione Sardegna è un rapporto pattizio. Purtroppo il decreto 348 sulle norme di attuazione dello Statuto speciale avrebbe dovuto dare risultati maggiori, invece alla fine ha comportato un indebolimento della stessa autonomia. Anche perché c’erano le regioni ordinarie che continuavano a rivendicare gli stessi poteri di quelle speciali, senza rendersi conto dell’esistenza delle diseconomie delle regioni a Statuto speciale. Furono gli stessi padri costituenti a volere le norme speciali. La specialità è uno strumento per rendere tutte le regioni uguali e non per favorirne alcune a discapito di altre».

Cosa dovrebbe fare oggi la Regione?

«Deve lavorare per rafforzare e aggiornare l’autonomia. Deve adeguarla alla società di oggi, alla globalizzazione. Le rivendicazioni della Regione verso il governo in tema di poteri esclusivi hanno ancora senso. Ma il problema è che lo Stato ha ceduto una parte dei suoi poteri all’Europa. Ecco perché la Regione deve essere messa in condizione di potere interloquire sia con lo Stato che con l’Unione europea. Perché al mondo di oggi gran parte delle partite si giocano a Bruxelles. Pensiamo alle rivendicazioni dei pastori, interessi che non vengono difesi dallo Stato».

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Lo Statuto speciale concede una maggiore autonomia finanziaria alla Sardegna. Malgrado ciò l’isola economicamente è ancora molto indietro. Che cosa non ha funzionato?

«Lo Statuto non concede solo autonomia finanziaria ma anche poteri reali su determinati temi. Pensiamo all’ambiente, al paesaggio. Su questo bisogna insistere per aggiornare lo Statuto. Ai tempi del Piano di rinascita la Sardegna aveva altre esigenze, c’erano tanta miseria e tanta fame, e la politica ha mostrato poca attenzione alla tutela ambientale. Già la Commissione Medici aveva sottolineato la necessità di trasformare la società di tipo agropastorale, ma lo si è fatto in maniera troppo violenta. Questo tipo di sviluppo sarebbe dovuto essere più rispettoso dei valori tipici della Sardegna. Il Piano di rinascita e la Cassa del Mezzogiorno furono cose ottime, ma la gestione andava curata meglio. È vero che allora quel tipo di industrializzazione era necessaria, ma solo se avesse seguito la catena da industria di base fino al secondo grado. Invece, la Sardegna, che all’epoca aveva grande necessità di industrializzazione, si è accollata un tipo di sviluppo di cui già allora altri si stavano liberando».

Che ruolo ha avuto la politica in questo scenario?

«Le racconto due episodi che mi riguardano. Il primo quando ero sottosegretario alle Finanze del governo Amato. Dovevamo mettere in atto il decreto 348 dieci anni dopo la sua approvazione. In giunta ci sono prima l’assessore Lorettu e poi Barranu. La vicenda riguardava i sette decimi dell’Irpef delle società con sede nella penisola e maestranze da noi. Soldi che ci spettavano, ma che lo Stato ci dava vincolati. Io mi battei per eliminare questa pretesa, frutto di una burocrazia terrificante, e riuscii a sbloccare la questione. Ebbene, quell’anno, era il 1993, la Regione sarda guadagnò 100 miliardi di lire, e senza vincolo di destinazione. Un secondo episodio risale a quando ero sottosegretario ai Trasporti nel governo Ciampi. Ricevetti i vertici della Sogaer che volevano realizzare il nuovo aeroporto di Cagliari. Mi dissero: “il progetto c’è, ma non abbiamo i soldi. O meglio i soldi delle tasse di imbarco ci sarebbero anche, ma vanno allo Stato che poi ce li gira”. Davanti a loro feci diverse telefonate, mi infuriai più volte: nell’arco di due mesi i soldi restarono direttamente nell’isola e si poté fare il nuovo aeroporto. Ma sa perché ho potuto fare tutto questo?».

Dica...

«Perché arrivavo da 10 anni da assessore regionale con poteri che conoscevo e che derivavano dalla legge. Ho citato questi due episodi che fare capire che in questi 70 anni lo Stato e la Regione non hanno messo a punto tutto quello che si doveva fare. Purtroppo c’è stata una forte debolezza della politica sarda rispetto a quelle incrostazioni che più che alla politica nazionale appartengono a un apparato burocratico terrificante».

Tra i politici sardi chi è che più di tutti si è battuto per l’autonomia?

«Non mi va di indicare questo o quello, dai costituenti ai giorni nostri sono tanti i presidenti di Regione, gli assessori e i parlamentari che hanno portato avanti questa battaglia».

E tra i politici italiani quanti si sono spesi per la Sardegna?

«Sinceramente non ne ricordo tanti».

Si parla sempre di più della necessità di modificare lo Statuto. Secondo lei quale impronta dovrebbe avere la Carta rinnovata dei sardi?

«Ci vuole un forte piano di tutela ambientale. Le costruzioni costruite sui fiumi e sui canali vanno eliminate. Non possiamo più permettere che accadano catastrofi come quelle di Olbia e Capoterra. Nel nuovo Statuto ci vuole un articolato piano di riassetto idrogeologico. L’ambiente è il nostro bene principale e va salvaguardato. L’ambiente va utilizzato in maniera intelligente e corretta».

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Un altro argomento di cui spesso si discute è il Piano di rinascita. Secondo lei la Sardegna di oggi avrebbe bisogno di un nuovo piano?

«Sì, lo ritengo necessario ma andrebbe pensato bene prima di realizzarlo. Bisognerebbe fissare bene gli obiettivi. E soprattutto specificare bene come funzionano i rapporti con lo Stato e con l’Europa, perché oggi quasi tutte le esigenze dei sardi, dai trasporti alla agricoltura, vengono decise a Bruxelles e non a Roma. La Sardegna deve avere voce in capitolo su quelle istanze. Questo deve essere il presupposto per un nuovo Piano di rinascita, che dovrebbe contenere non solo una parte operativa ma anche una concettuale. E poi dobbiamo investire in cultura, nell’isola c’è una dispersione scolastica paurosa, c’è una carenza dell’istruzione dalla primaria fino all’università. Senza istruzione e formazione non ci può essere futuro. La politica dovrebbe pensare come sarà la Sardegna fra 20 anni e mettere insieme tutti i tasselli. Il futuro va pianificato nel suo insieme e non a pezzetti».

È d’accordo sulla campagna referendaria per inserire il principio di insularità nella Costituzione?

«Ritengo che lo strumento sia sbagliato. Non c’è bisogno di un referendum. Che senso hanno raccolte di firme e tutte queste pressioni per fare sì che l’insularità venga considerata per quello che è realmente? Non è che dopo il referendum l’isola diventi una penisola. Io credo che la battaglia, che è più che giusta, vada combattuta in altro modo e deve condurla tutto il Consiglio regionale. Deve essere corale e non una questione di parte. Posso aggiungere una cosa?»

Ci mancherebbe...

«Sa perché è nata l’associazione degli ex parlamentari sardi che io mi onoro di guidare? Perché manca la politica. Oggi non c’è una cattiva politica, non c’è proprio politica. In Sardegna, in Italia, in Europa la politica ha perso il suo primato. Il ruolo dei politici dovrebbe essere quello di mediatori fra il mercato e la società, ma purtroppo hanno abdicato al loro ruolo. Se chiude una fabbrica con mille posti di lavoro il mercato se ne frega. È la politica che dovrebbe occuparsene, ma oggi non c’è».

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