La Nuova Sardegna

Europa dell'Est, il nazionalismo che fa paura

Alfredo De Girolamo
Il parlamento europeo
Il parlamento europeo

Bruxelles guarda con preoccupazione la svolta ultraconservatrice in Polonia, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca. Di fronte a tutto questo la risposta per tenere l'Europa unita non è la democrazia autoritaria, ma l'autorità della democrazia

22 aprile 2018
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La svolta a destra dell'Europa dell'Est è ormai inarrestabile, forte del traino dei quattro cavalli di una carrozza lanciata sulle strade del nazionalismo, dell'antisemitismo e dell'ultraconservatorismo. Il Gruppo di Visegrad, ovvero Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria, sta dando un'impronta, alla luce dei rispettivi ultimi risvolti elettorali, che spaventa Bruxelles. In Polonia sin dal suo insediamento, il partito nazionalista Diritto e Giustizia (PiS), che esprime il premier Morawiecki e il presidente della repubblica Duda, aveva affermato che avrebbe promosso "una politica storica". Esaltare le virtù nazionali e scatenare una campagna di odio nei confronti dell'Europa, della Germania e di tutti gli oppositori in patria, definiti traditori.

In questa cornice si inserisce la legge sui campi di sterminio, provvedimento xenofobo e antisemita varato un paio di mesi fa, che definisce illegale e penalmente perseguibile "qualsiasi allusione di responsabilità o corresponsabilità di Varsavia nei crimini commessi dalla Germania nazista durante la Seconda Guerra Mondiale". Davvero incredibile, se pensiamo che sino a 10 anni fa la Polonia veniva descritta tra i più importanti nuovi membri della Ue, con una solida democrazia e una società dalla cultura democratica diffusa e in pieno boom economico.

Non sono da meno gli altri paesi del Gruppo di Visegrad, che nacque nel 1991 per rafforzare la cooperazione tra gli allora tre Stati (esisteva ancora la Cecoslovacchia) allo scopo di promuovere una loro integrazione unitaria all'interno dell'Unione Europea. In Slovacchia l'Sns (il partito nazionale slovacco) è cresciuto nei consensi: alle ultime elezioni del 2016 ha ottenuto l'8,64%. Si caratterizza per le ronde contro gli immigrati e la rabbia contro la comunità rom (il 10-15% della popolazione individuato come lo straniero da cacciare). Nella Repubblica Ceca, Milos Zeman è stato confermato presidente da pochi giorni, con il sostegno della Russia. Ha vinto un ballottaggio sul filo di lana con lo sfidante filoeuropeo Jiri Drahos, aprendo una profonda frattura all'interno della società, in particolare sull'immigrazione e la politica estera.

Il primo ministro ungherese Viktor Orban, falco della destra populista, è stato invece da pochi giorni rieletto per un terzo mandato consecutivo: il suo partito ha raccolto il 48% dei voti, abbastanza per una maggioranza qualificata dei due terzi del Parlamento. Orban ha impostato l'intera campagna elettorale esclusivamente sulla sua opposizione all'immigrazione, e il dibattito politico è rimasto confinato a quella questione. Nella base del consenso di Orban è fortemente radicata l'idea che lui sia l'unica figura in grado di proteggerli dall'invasione musulmana. La vittoria di Orban è il risultato di diversi fattori, strettamente concatenati: l'indebolimento del sistema democratico ungherese, il successo della piattaforma anti-migranti e, ovviamente, la frammentazione dell'opposizione. La debolezza del contrappeso dell'opposizione è un rischio notevole per un Paese sempre meno liberale e che guarda al ritorno del modello del partito unico. Orban ha i numeri per piegare e cambiare la costituzione. E la magistratura, che finora ha mantenuto un ruolo indipendente, potrebbe diventare il prossimo bersaglio. Mentre, sul fronte del Parlamento europeo è interessante capire quanto il Fidesz, partito di Orban, continuerà ad essere tollerato tra i banchi della famiglia dei popolari.

Nei paesi del Gruppo di Visegrad e in generale nell'Europa dell'Est, la libertà di espressione è limitata, opposizioni e parlamenti sono essi stessi limitati. Ed ecco allora, come dinanzi ai grandi fenomeni delle migrazioni, le frontiere nazionali diventano anche i confini politici. Ma per salvare l'Europa, dove avanza "il rischio di una guerra civile" come ha detto recentemente al Parlamento Ue Emmanuel Macron, e tenerla unita "la risposta non è la democrazia autoritaria, ma l'autorità della democrazia". (@degirolamoa)

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