La Nuova Sardegna

I giudici: quando Pinna ha ucciso, sapeva cosa faceva

di Nadia Cossu
I giudici: quando Pinna ha ucciso, sapeva cosa faceva

Le motivazioni della conferma in Appello dei 20 anni già inflitti in primo grado

22 aprile 2018
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SASSARI. Di fronte a un omicidio «è di tutta evidenza come un mero disturbo dell’adattamento non possa essere assunto come sintomo di una mancante o ridotta capacità di intendere e volere. Il valore della vita è qualcosa che si impara fin dai primi nostri anni di vita e non ci vuole una grandissima capacità per percepire il grado di illiceità che sottende un omicidio».

I giudici della corte d’appello di Sassari fanno riferimento a un “consolidato indirizzo giurisprudenziale” per motivare la loro convinzione: Paolo Enrico Pinna era «pienamente consapevole delle sue azioni» quando il 7 maggio del 2015 ammazzò il compaesano Stefano Masala e il giorno dopo lo studente di Orune Gianluca Monni. Le motivazioni che hanno convinto i giudici a confermare la sentenza di condanna a vent’anni per il giovane di Nule accusato di duplice omicidio sono messe nero su bianco in poco meno di 150 pagine. La sezione distaccata per i minorenni della corte d’appello (presieduta da Maria Teresa Spano) scandaglia minuziosamente moventi, vendette, inganni costruiti da Pinna e dal cugino Alberto Cubeddu (che sta affrontando il processo a Nuoro) per portare a termine un piano diabolico: uccidere un ragazzo (Monni) per uno sgarro ricevuto e un altro (Masala) perché testimone scomodo. Ma tutto questo, al contrario di quanto avrebbero voluto far credere gli avvocati della difesa, non sarebbe stato messo in atto da un ragazzo dalla personalità talmente disturbata da non consentirgli di avere una percezione veritiera di quello che stava andando a fare. Tutt’altro. Ed è spiegato bene nelle motivazioni della corte d’appello: «Anche ipotizzando in astratto l’esistenza di un disturbo di personalità, valutando gli aspetti dinamici, complessivi (...) emerge un’articolata coerenza, organizzazione e continuità degli atti delittuosi, incompatibile con una alterazione della sua capacità di rendersi conto del significato e delle conseguenze dei suoi atti». Pinna dunque era pienamente lucido e consapevole «avendo sempre mantenuto un rigoroso controllo delle sue decisioni (impossessamento dell’auto di Masala, appostamento a Orune, occultamento del mezzo, preparazione di un alibi).

Esaminato il quadro psicologico, i giudici analizzano poi tutti i momenti successivi alla famosa festa di Cortes Apertas di Orune e ai contrasti avuti con Gianluca Monni e i suoi amici in quell’occasione. Qui è focalizzato il movente: Pinna molesta Eleonora, la fidanzata di Monni, e questo scatena la furia degli orunesi che pestano il giovane di Nule per ben due volte. La prima dentro il locale dopo che Paolo Enrico esibisce una pistola in segno di sfida (e gli orunesi gliela portano via) e la seconda mentre Pinna va via da Orune in macchina con Stefano Masala. Due episodi che secondo i giudici scatenano la sete di vendetta dell’allora minorenne. E, rispetto alle affermazioni contenute nella richiesta d’appello degli avvocati difensori, i giudici smontano anche la teoria dell’alibi: «Le conversazioni intercettate tra i parenti dimostrano senza ombra di dubbio che Paolo Enrico non è a casa alle prime ore del mattino dell’8 maggio, tant’è che i suoi familiari si preoccupano di trovargli un alibi e quelli del cugino Alberto Cubeddu si rassicurano a vicenda sulla circostanza che i due si erano premurati di lasciare i telefoni cellulari nelle rispettive abitazioni, così rendendosi di fatto irrintracciabili, benché siano insieme nella casa di Alberto a Ozieri».

Pinna a Orune quella mattina «è andato con la Opel Corsa di Masala, insieme a Cubeddu». Altra certezza dei giudici: «Masala non era a Orune l’8 maggio». E in relazione alla sua morte e scomparsa «la Corte è certa che dopo le 21.20 del 7 maggio nessuno ha più visto Stefano Masala, scomparso improvvisamente dopo essere stato avvistato per l’ultima volta nelle vicinanze dell’abitazione di Pinna...», proprio in compagnia dell’imputato. Ed è stato ucciso, Stefano, «per vendetta» (perché la sera del pestaggio si fermò con la macchina all’alt degli orunesi) ma anche con una finalità strumentale all’omicidio di Gianluca».

A Stefano doveva «essere impedito di poter riferire come erano andate le cose. Ecco perché la successiva soppressione del cadavere. In quanto anche un cadavere può consentire di acquisire informazioni investigative contrarie alla simulazione creata apposta per far ricadere la responsabilità dell’omicidio Monni su Masala».

©RIPRODUZIONE RISERVATA
 

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