La Nuova Sardegna

la carriera criminale 

Omicidi e sequestri di persona non rivelò mai i nomi dei complici

Omicidi e sequestri di persona non rivelò mai i nomi dei complici

NUORO. Lo catturarono il 30 gennaio 1987 nelle campagne di San Cosimo, tra i lecci che avvolgono il santuario caro a ogni mamoiadino che si rispetti, dove ogni anno si svolge una delle sagre più...

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NUORO. Lo catturarono il 30 gennaio 1987 nelle campagne di San Cosimo, tra i lecci che avvolgono il santuario caro a ogni mamoiadino che si rispetti, dove ogni anno si svolge una delle sagre più belle della Barbagia. Ma il nome della zona è legato anche al triplice delitto passato alla storia come la strage di San Cosimo, nel settembre 1955, forse la più efferata e folle nella storia della criminalità sarda (si parlò di uno scambio di persone). Tra gli arrestati ci fu anche il padre di Annino Mele, che poi fu assolto. Dicono alcune biografie un po’ compiacenti che quell’episodio segnò la vita del futuro bandito, e ne fece un adolescente ribelle costantemente “attenzionato” dai carabinieri del paese; e descrivono, secondo un perfetto cliché barbaricino, una dura vita di stenti in campagna mentre i suoi coetanei frequentavano la scuola. Lo stesso editore di buona parte dei libri che l’ex latitante ha scritto negli ultimi anni, Renato Curcio (il fondatore delle Brigate Rosse), a ogni presentazione in Continente insiste molto su questo aspetto.

In realtà, Mele e la sua famiglia poveri non lo sono mai stati: basti pensare che dove sorgeva la loro villa, all’ingresso di Mamoiada, oggi c’è un centro commerciale, e che lo stabile, prima di essere devastato da un ordigno nel 1991, era costituito da 1400 metri distribuiti su quattro piani e aveva muri esterni in granito, al pari dell’alta cinta perimetrale. La madre Mariangela Meloni l’aveva ereditato dal fratello Raffaele, che aveva fatto fortuna in Argentina ed era tornato in Barbagia miliardario. I mamoiadini lo chiamavano don Boelle, in segno di un non meglio precisato titolo nobiliare.

Il debutto nella criminalità di spicco, almeno secondo i riscontri giudiziari, è del 1975, con il sequestro di Attilio Mazzella, padre del futuro imprenditore turistico Giorgio. Al processo Annino Mele verrà assolto. Ma è il duplice omicidio del primo gennaio 1976 a Nuoro, passato agli annali come il delitto dello stadio Quadrivio, a costargli la prima condanna: è l’ergastolo.

Mele ha appena 25 anni, ma sfugge alle maglie della giustizia, e prosegue la sua attività di bandito di spicco. Ora è lui il latitante numero uno della Sardegna: Graziano Mesina, più grande di nove anni, è in galera da tempo, mentre Matteo Boe, più giovane di sette, è ancora uno studente dell’istituto agrario di Nuoro. Che reati commette da qui alla cattura nel 1987? L’unico dato certo sono le condanne. C’è il sequestro Agrati nel 1983, poi c’è il rapimento dell’industriale del caffè Gigino Devoto, a Nuoro nel 1986. Resta prigioniero per 200 giorni e viene rilasciato dopo il pagamento di 800 milioni di lire (e una bomba che un anno dopo squasserà il palazzo di famiglia in piazza Italia). Lo stesso anno tocca ai coniugi galluresi Giorgio Decandia e Paolina Brais. Prima viene liberato il marito, poi la donna, ma il loro posto viene preso da un autotrasportatore nuorese, Domenico Pittorra.

È proprio durante quest’ultimo rapimento che Annino Mele viene catturato. Ha 35 anni. Pochi giorni dopo fa sapere agli inquirenti di voler lanciare un messaggio ai complici per la liberazione dell’ostaggio. Dopo averli tranquillizzati sul fatto che non rivelerà i loro nomi, pronuncia la famosa frase che viene citata spesso a sproposito: “Il sequestro non paga”, dice, e tutti gli esperti lì a interrogarsi sul significato di questa affermazione. Un messaggio in codice o la constatazione di un uomo pentito per ciò che ha fatto?

Pentito però Annino Mele non lo sarà mai, né rivelerà il nome dei complici. In tutto questo c’è anche spazio per una parentesi terroristica, cioè la sua presunta partecipazione al Mas, il movimento armato sardo che rivendica l’uccisione di alcuni pentiti (coinvolti nel processo per la Superanonima, dove Mele prese un’altra condanna). I giudici di Nuoro esclusero che facesse parte della formazione terroristica, che fu soprattutto una sigla per coprire delitti e misfatti di criminalità comune. Legata al terrorismo, almeno secondo le cronache dell’epoca, era invece Francesca Fah, la donna di origine svizzera che gli diede un figlio durante la latitanza, condannata anche lei per sequestro (Agrati e Bardanzellu).

Nel 1987 dunque Mele si tirò fuori da tutto ciò, ma soprattutto dalla ripresa della faida che negli anni successivi insanguinò Mamoiada, e costò un lungo numero di morti alla sua famiglia e a quella opposta dei Cadinu (in una lettera dal carcere Mele ha già contestato a chi scrive l’uso del termine faida, ma lo dicono le cronache giudiziarie). Nella sua lunga vita carceraria, fatta di impegno per i diritti dei reclusi (una perfetta nemesi storica, a ben guardare) e di sei libri pubblicati, c’è persino un tentativo di avvelenamento andato a vuoto, con un caffè alla stricnina, a Badu ’e carros nel 1988. Ma a differenza di illustri predecessori uccisi con questo metodo mafioso, Mele si salvò perché aveva cominciato ad apprezzare il caffè amaro, e ingerì solo una piccola parte del veleno contenuto nello zucchero. (p.me.)

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