La Nuova Sardegna

Arborea, Zoraide l’eroina della bonifica: «Mangiavamo solo polenta»

Michela Cuccu
Arborea, Zoraide l’eroina della bonifica: «Mangiavamo solo polenta»

Negli anni Trenta i braccianti veneti arrivarono in massa nell’Oristanese: «Scavarono chilometri di canali a mani nude. Lavoro duro e salari da fame»

30 aprile 2018
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ARBOREA. «Era stato il nonno a convincere mio padre “vieni qui che c’è l’America”, gli diceva. Ma l’America che ci aspettava era fatta solo di sabbia e vento». Zoraide Capraro, classe 1923, è la decana dei coloni veneti della bonifica di Arborea. Novantacinque anni portati in maniera invidiabile, ricorda perfettamente il giorno che, da Vicenza, arrivò in Sardegna, dopo due giorni di piroscafo e un lunghissimo tragitto sul carro tirato dai buoi. «Io avevo nove anni e mio fratellino appena 40 giorni – racconta –. Avevamo preso con noi poca biancheria, un mobile e un sacchetto di polenta che ci ha sfamati. Qui, nel 1932 non c’era praticamente nulla».

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Zoraide è la memoria vivente della Bonifica di Arborea che ha visto praticamente nascere. I suoi ricordi parlano di fatica, sacrifici e speranze: «Non c’erano nemmeno le strade e dovemmo percorrere un lungo tratto a piedi per arrivare a casa del nonno, dove abbiamo vissuto per un anno in 22. Noi, la mia famiglia, tutti in una stanza. E meno male che eravamo solo in cinque».

Racconta volentieri gli esordi: «Qui tutto è stato fatto a forza di braccia. Migliaia di braccia che hanno scavato i canali e posato una ad una le pietre per fare le strade. Il materiale arrivava con un trenino che partiva dalle cave di Marrubiu (il Monte Arci, ndc). Quando il vento non si fermava neppure di notte, la sabbia ricopriva i canali e bisognava fare tutto daccapo».

La famiglia di Zoraide non lavorava nella bonifica: «Mio padre era giardiniere. Venne assunto nel primo vivaio per gli alberi frangivento da piantare a ridosso dei campi e le barbatelle dei vigneti. Una volta cresciuti, ci abbiamo lavorato anche io e i miei fratelli. La paga era bassa, ma bastava per vivere. Purtroppo mio padre morì a 44 anni di incidente sul lavoro. Il dopo, come potete immaginare, fu molto duro».

La vita della bonifica già da allora era regolata dai canali dell’acqua convogliata dal fiume Tirso. «Ci irrigavamo i campi, lavavamo i panni e, d’estate, ci facevamo il bagno. Ma quell’acqua, che quasi per miracolo arrivava da tanto lontano, era così pulita che si poteva bere», racconta Zoraide che non smette mai di sorridere anche quando ricorda la durezza della vita di allora. «Le case – dice – non erano come le vedete adesso. I pavimenti erano assi di legno che quasi navigavano nell’acqua perché le opere di bonifica terminarono solo nel 1940. Il bagno, se così lo vogliamo chiamare, era uno stanzino sotto il quale scorreva la fogna delle stalle. Alla famiglia di mio marito, che arrivò qualche anno dopo di noi, assegnarono una casa senza vetri alle finestre. E siccome erano arrivati in pieno inverno, si aggiustarono tappando le aperture con balle di fieno. Per fortuna quell’ inverno fu mite».

L’elettricità arrivò solo nel 1950 «fino ad allora eravamo andati avanti con candele e lumi a petrolio. Al mattino ci svegliavamo con il naso nero di fuliggine. Ma non ci ammalammo: anche il petrolio a quel tempo era sincero».

Il lavoro nei campi era pesantissimo nei campi, si mangiava poco: «La spesa si poteva fare una volta al mese dopo aver preso il salario. Per trovare un negozio bisognava arrivare fino a Terralba. Il piatto principale era la polenta e solo la domenica il menù cambiava: pollo e patate. Un solo pollo, però, da dividere in 22: era quella l’unica carne della settimana. Anche il pranzo del mio matrimonio fu molto semplice: una minestra con brodo di pollo e qualche patata lessa che mio marito era riuscito a procurarsi non so come».

Il racconto del matrimonio di Zoraide, celebrato nel 1944 sembra tratto dalla sceneggiatura di un film neorealista. «Il mio corredo era fatto di due lenzuola singole, cucite assieme, che ci avevano dato i militari della caserma di Mogoro – ricorda –. Io indossavo una camicia prestata da mia zia e una gonna fatta di orbace e un paio di sandali di due numeri più grandi, che avevo fatte accorciare dal calzolaio. Le scarpe di mio marito, invece, avevano un buco sulla tomaia».

In tempo di guerra i vestiti erano un lusso. «Se mia madre doveva uscire usava il mio e io restavo a casa. Non c’erano calze né scarpe, ma solo zoccoli di legno che quando andavamo a scuola (nella frazione di Pompongias) o la domenica in chiesa, tenevamo in mano per tutto il tragitto».

Ad Arborea prestava servizio un medico che di cognome faceva Ferrari: «Per le visite si spostava in bicicletta e percorreva di giorno e di notte la bonifica per curare i malati. Quando arrivai qui - racconta ancora Zoraide – presi la malaria. La febbre saliva a 40 e durava per otto giorni di seguito. Allora di malaria si moriva, così mia madre, dietro consiglio del dottore, portò me e i miei due fratellini via. Andammo a La Spezia, dove avevo i nonni materni, ma all’inizio la gente del posto non ci voleva: credevano avessimo la tubercolosi». Quando nacque la mia prima bambina, la levatrice, arrivò in bicicletta un’ora dopo che avevo già partorito».

La storia di Arborea, nata “Mussolinia” è direttamente legata al Ventennio «Mussolini e il re li ho visti tante volte - ricorda Zoraide -. Volevo bene al duce perché il sabato non ci faceva lavorare e andavamo a far ginnastica al campo sportivo. Quando lo uccisero mi dispiacque. Al referendum votai monarchia: io ero per il re e per Mussolini. Poi vinse la Repubblica. Per me cambiò poco. Però ho sempre votato la Democrazia cristiana».


 

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