La Nuova Sardegna

L’ex parroco don Borrotzu: da 50 anni qui si ammazza

di Valeria Gianoglio
L’ex parroco don Borrotzu: da 50 anni qui si ammazza

Dopo il duplice tentato omicidio parla il prete che per anni ha guidato la parrocchia: capisco il dolore, a un mese dall’ordinazione era stato ucciso un fratello di don Chessa

16 luglio 2018
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ORUNE. «Le parole pronunciate da don Giovanni Maria Chessa sulla giustizia matrigna? Mettiamola così: il mio modo di ragionare è diverso ma io non ho vissuto gli stessi drammi e questo non va dimenticato. Quelle di don Chessa sono parole che si possono comprendere solo se le si contestualizza. Le comprendo, umanamente, alla luce di quello che ha passato. Perché sono 50 anni che questa famiglia, la famiglia Chessa piange morti ammazzati. Per me, non lo nascondo, sarebbe stato difficile gestire anche una sola morte. Ricordo ancora oggi, che un mese prima dell’ordinazione di don Giovanni Maria, nell’87, un fratello era stato ammazzato. Ricordo anche che quando, in precedenza, era stato ordinato sacerdote l’altro fratello, Salvatorangelo, il giorno della festa per la sua ordinazione, proprio quel giorno, avevano arrestato il fratello Peppino. Mi sembra che erano arrivati anche gli elicotteri, per arrestarlo, e la festa era in corso. Mi chiedo: non potevano aspettare un giorno? Ecco, forse, a cosa si riferisce don Giovanni Maria quando parla di “zustissia” matrigna».

Parroco, da diversi anni, della chiesa di Beata Maria Gabriella a Nuoro, a lungo responsabile dell’ufficio per la pastorale sociale e del lavoro della diocesi, giornalista pubblicista, da tanti anni impegnato nel campo del sostegno ai carcerati e agli ultimi, don Pietro Borrotzu da sempre è un sacerdote coraggioso, diretto e che non le manda a dire.

Come quando, negli anni nei quali scriveva per il settimanale diocesano L’Ortobene diretto allora dal grande don Salvatore Bussu, raccontava, come osservatore acuto, anche le fasi più accese della faida di Orune. E il suo, era un osservatorio decisamente privilegiato, visto che di Orune per qualche anno era stato viceparroco. E in quel periodo, dall’85 all’89, don Borrotzu ne aveva viste davvero di tutti i colori e sfumature, aveva intrecciato solide amicizie, aveva conosciuto e cercato di analizzare quali fossero le logiche assurde dell’odio e della vendetta. «Era un periodo caldo – dice oggi – un fiume di violenza che non ha eguali. Avevo scritto diverse cronache per i tanti morti ammazzati, ma sono riuscito a mantenere rapporti molto positivi che perdurano». Ecco, don Borrotzu, di quel periodo così complesso e ricco delle più profonde e oscure sfaccettature dell’animo umano, ricorda bene in particolare due episodi che hanno segnato, sotto vari aspetti, la vita di don Giovanni Maria e dei suoi familiari.

Ed è proprio per questo che, pur non condividendo i termini utilizzati dal suo collega sacerdote dopo il duplice tentato omicidio del cugino e del nipote, riesce tuttavia a comprenderne il significato. Il suo richiamo alla giustizia matrigna e allo Stato patrigno. «Lo si capisce solo contestualizzandole», ripete il parroco di Beata Maria Gabriella. Il primo episodio è quello dell’ordinazione sacerdotale di don Giovanni Maria. Era un giorno di inizio agosto del 1988 ma, dice don Borrotzu, nella chiesa di Orune in realtà non c’era tanto da festeggiare, quantomeno non nei termini soliti.

«Un mese prima di quella ordinazione – racconta, infatti, don Borrotzu – era stato ucciso un fratello di don Chessa, Antonio. Un mese dopo ci fu l’ordinazione sacerdotale ma, come si può capire, con il lutto appena subìto, fu una cerimonia molto semplice e asciutta. La morte in famiglia, l’ennesima, era troppo fresca».

E ancor prima, ricorda don Borrotzu, c’era stato anche un altro episodio che aveva segnato la famiglia Chessa. «Il giorno dell’ordinazione sacerdotale dell’altro fratello, Salvatorangelo, durante la festa, avevano arrestato il fratello Peppino – ricorda – e se non sbaglio erano arrivati con gli elicotteri, durante i festeggiamenti. Anche queste sono cose che segnano».

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