La Nuova Sardegna

L’anima del Coro di Neoneli: «I nostri canti meglio del jazz»

Enrico Carta
L’anima del Coro di Neoneli: «I nostri canti meglio del jazz»

Tonino Cau è il fondatore del gruppo: non solo un rito, un’esperienza sociale e politica. Si è esibito anche davanti al papa Giovanni Paolo II in mondovisione

03 settembre 2018
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NEONELI. La prima domanda che passa per la testa è: «Da dove vengono fuori quelle voci?». Trovare la risposta è più semplice di quanto si possa pensare. Non arrivano dal passato. Sono voci del presente e provengono tutte da un unico luogo. Quel luogo è l’anima. È brutto, a volte, indicare una data di nascita perché persino un bambino, prima ancora di venire al mondo, è stato per lo meno un desiderio, un sogno, una proiezione ideale dei suoi genitori. In questo caso la creatura è una melodia, con un’insieme di voci, che per la prima volta si palesò nel 1976. È l’anno di fondazione del Coro a tenores Cultura popolare di Neoneli. Ma se qualcuno andasse in giro a citare per esteso quel nome forse verrebbe preso per pazzo.

È in realtà tutto molto più semplice. Peppeloisu Piras, Roberto Dessì, Ivo Marras e Angelo Piras sono i Tenores di Neoneli. Manca un nome all’elenco, quello del motore del gruppo, fondatore di una storia che dura da oltre quattro decenni che è stata capace di rigenerare la tradizione sarda. È quello di Tonino Cau. È un po’ il filosofo, l’anima di chi da 42 anni non sbaglia una nota. Gira in tutto il mondo la voce dei Tenores di Neoneli. Ha cantato l’Ave Maria di fronte a Papa Giovanni Paolo II in mondovisione, ha partecipato due volte al Premio Tenco, è stata affiancata sul palco da Elio, Ligabue, Guccini, Branduardi, Baccini, Finardi, la Pfm e porta in giro la Sardegna che con quella musica non è mica ferma al lascito atavico dei padri.

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C’è un punto di partenza. È il 1973 e «a Neoneli esisteva un gruppo folcloristico che in pochi anni guadagnò molti consensi. Delle proposte del gruppo faceva parte integrante il canto a tenore, riportato alla luce da alcuni giovani dopo diversi decenni di quasi oblio – racconta Tonino Cau –. Io danzavo nel gruppo, ma non mi perdevo un canto o una prova del tenore. Ero sempre più appassionato. Era anche il tempo in cui cominciavano a esibirsi nelle piazze cori mitici come quello di Orgosolo che era il mio preferito con le voci di Peppino e Pasquale Marotto, o il gruppo Rubanu e poi quelli di Fonni, Mamoiada. È allora che nacque l’idea di dire qualcosa col canto, proprio sulla scia dei canti impegnati di denuncia e protesta».

Il gruppo primigenio di Neoneli poi si sciolse, «così io e altri tre amici formammo l’attuale gruppo. Oggi sono l’unico dei fondatori che ancora canta e studia». Studiare, parola magica. Non è solo voce il canto a tenore perché dietro ci sono ore di prove che precedono il palco e l’abbraccio col pubblico. «Godiamo dell’opportunità di collaborare con molti musicisti, ma l’esibizione è solo l’ultimo momento di un lavoro di elaborazione e studio. Non è la fase più difficile, perché i meccanismi tra di noi e con i grandi artisti con cui ci esibiamo sono già oliati. Il palco è solo il momento in cui emerge la preparazione di mesi che va oltre il provare le voci».

C’è più di un pizzico di orgoglio in questa frase, c’è la voglia di veder riconosciuto un lavoro che rende unici nel loro campo i Tenores di Neoneli. Il gruppo non si limita a ripetere brani della tradizione orale, ma elabora concetti nuovi non solo musicali. La produzione è estesa come altre mai in Sardegna. L’ultima fatica è il trittico in ottave logudoresi su Gramsci, Lussu e Berlinguer – quello su Gramsci, ad esempio, si compone di 935 strofe –, ma alle spalle ci sono libri, video, incisioni come quella del famoso Barones: «L’abbiamo incisa completa senza aggiungere o modificare l’impianto originale ed è un’opera filologicamente inedita», prosegue Tonino Cau.

Originalità e innovazione che sposano la tradizione che «non può essere quella delle immagini patinate dei costumi e delle manifestazioni che rendono onore solo in parte a ciò che davvero fa nascere balli, costumi, feste. Il ballo è un elemento fortemente identitario e differenziava le comunità talvolta molto vicine così come mille altre cose, che marcavano i paesi. Oggi tuttavia proliferano i gruppi cosiddetti di ballo sardo, intendo gruppi musicali, e la gente danza. L’elemento positivo è proprio questo: la gente danza. Partecipa a un rito in cui il padrone è il ritmo e il ritmo è quello della danza etnica. L’aspetto negativo è invece che tali danze sono eseguite come dei girotondi, quasi come un rito fisico. Questo lo trovo estremamente deteriore. Allo stesso tempo preferisco credere che sia meglio attirare gente e turisti per le nostre tradizioni che per il jazz. Preferisco un turista che viene in Sardegna a vedere la Sartiglia o a sentire un tenore che trova solo qui, piuttosto che per altre ragioni. Oggi un nuraghe si potrebbe fare in due giorni a Sesto san Giovanni come ad Acapulco, a Melbourne come a Detroit. Ma chi viene in Sardegna attratto dai nuraghi gode dei paesaggi dove sono inseriti, degli odori della nostra campagna, del nostro vento, dei rumori. Lo stesso discorso vale per i tenores e le tradizioni».

E domani cosa resterà di queste tradizioni? «C’è uno zoccolo duro di giovani che ci segue forse incentivato dalla collaborazione con altri artisti. Elio, ad esempio, con cui canteremo ancora il 7, l’8 e il 9 all’Asinara, a Tharros e a Sarroch ci ha fatto intercettare una fetta di pubblico diversa da quella canonica per i nostri concerti. Resta il canto come esperienza sociale e politica. Resta un bagaglio di produzioni che riempiono una stanza». E resta l’anima quella che fa dire a chi assiste ai concerti tematici come Zuighes o Gramsci che hanno girato e continuano a girare il mondo: «Il nostro è un canto oltre che da sentire perché musicalmente magico, soprattutto da ascoltare perché insegna storie e storia».

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