La Nuova Sardegna

Lo scatto di Valentina, la fotografa sarda che ha conquistato il Time

Enrico Carta
Lo scatto di Valentina, la fotografa sarda che ha conquistato il Time

Oristanese, vive da anni in Cina. Ora è In Iraq per un reportage sui giovani.Nel 2017 una sua foto è stata scelta dal magazine Usa tra le migliori 100 dell’anno

01 ottobre 2018
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ORISTANO. Sbaglia chi pensa che una fotografia sia semplicemente cogliere l’attimo. Succede, a volte, di immortalare un momento che poi passa alla storia, ma è davvero questa la filosofia che sta dietro uno scatto? Il caso è davvero il motore e l’anima di un istante fissato nel tempo avendo come occhio un obiettivo? O è forse il filo che lega il fotografo al soggetto di cui sta per fissare una parentesi di vita? Se alla domanda rispondesse Valentina Sinis, oristanese col cuore a metà tra la Sardegna e la sua Cina, non avrebbe dubbi: «Non fotografo situazioni comuni. Il mio lavoro è fatto di connessione coi soggetti che rappresento e questa connessione mi porta a fare un lavoro che va al di là della singola foto. Per avere accesso a ciò che voglio rappresentare, serve un rapporto intimo col soggetto e questo mi viene naturale perché guardo tutti senza pregiudizio. Spesso ho contatti con persone particolari, forse sono attratta da loro e dalla loro realtà non comune per cui diventa più semplice trovare la connessione».

Eccola la filosofia di Valentina Sinis, fotogiornalista e documentarista, che nel 2017 a Chengdu, città in cui vive, ha scattato una delle 100 foto dell’anno tra quelle scelte da Time Magazine. È una piscina dove è persino difficile scorgere l’acqua. Il colpo d’occhio è quello di un ammasso di persone, un’intricata selva di colori fluorescenti di salvagenti e costumi da bagno. E poi volti che esprimono mille emozioni. «Quando ho deciso di scattare, ho visto in quella situazione un momento di caos ordinato», racconta quasi minimizzando l’intuizione. Sceglie un ossimoro per sintetizzare un percorso che in Cina, ben prima dell’attuale lavoro con l’agenzia fotografica EPA e del ruolo di Ambassador per la comunità fotografica TheShukran, è iniziato nel 2004: «Avevo appena terminato gli studi universitari a Roma in Economia e Marketing della moda e partii per una breve vacanza in Cina. Poi ho deciso in un attimo: terminato il viaggio, sono tornata a casa e ho fatto i bagagli».

Ci vuol coraggio? «No, perché nel 2004 tutto era più facile, l’accesso in Cina era molto meno complicato rispetto a oggi – spiega –. Il primo anno mi è servito per imparare la lingua e nel frattempo ho iniziato a lavorare insegnando marketing della moda all’università. La Cina offriva molte opportunità e ho anche avviato un’attività imprenditoriale con una piccola fabbrica di torte all’italiana». Funzionava, ma il cuore e la passione indicavano un’altra direzione. «La fotografia era il mio grande amore – prosegue –, ma non pensavo di poterla trasformare in una professione. È successo però che ho incontrato il chief EPA per la Cina che mi ha chiesto se fossi interessata a proporre delle fotostory». Era una novità, una bellissima novità e allo stesso tempo un’opportunità. La risposta è stata positiva «e così è nata la prima storia che ha avuto come protagonisti dei piccoli orfani tibetani ai quali era stata data un’opportunità di rilancio sociale tramite l’arte marziale MMA. È andata bene e da allora non mi sono più fermata».

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Sono arrivati altri lavori, il riconoscimento di Time Magazine, medaglia da apporre orgogliosamente al petto; alcuni workshop a Hong Kong e in Thailandia con la Magnum, la più grossa agenzia mondiale di fotografia; l’ingresso in VII nel mentorship program con Christopher Morris come mentore, prima della missione a Baghdad ancora in corso durante la quale sta raccontando spaccati di quella gioventù irachena nata negli anni ’90, i primi anni del declino della stella di Saddam Hussein. «Sono lavori difficili perché non fotografo situazioni comuni – spiega –. In Iraq, dove si svolge la prima parte di questo nuovo progetto che proseguirà anche in Iran non faccio i soliti servizi tradizionali da dopoguerra e di ricostruzione. Mi occupo di situazioni di marginalità sociale, di discriminazione sessuale».

Un po’ come accadde per la storia della transessuale thailandese Lolita. «Per riuscire al meglio in quel lavoro – prosegue – ho vissuto con lei. Solo così ci si rende conto di una miriade di problemi a cui queste persone vanno incontro e che altrimenti resterebbero sotto traccia. Ci sentiamo ancora e la sua somiglia tanto a una di quelle storie con un finale positivo, la classica vicenda in cui i problemi, anche quelli in famiglia, alla fine si risolvono».

E la Sardegna? C’è ancora spazio per la terra natale in un mondo completamente diverse come quello cinese. «La realtà cinese – conclude – è molto diversa dalla nostra. È una realtà molto aperta in cui anche una straniera non viene identificata con una determinata categoria di persone. Allo stesso tempo, si coglie la difficoltà ad agire liberamente. La censura, la difficoltà ad avere notizie e a informarsi esistono. Spesso chi non fa lavori come il mio neanche si rende conto di quel che accade nel mondo o nella stessa Cina. In questo è una terra davvero molto diversa e lontana dai nostri modi di pensare. La Sardegna? Io rimarco sempre le mie origini. Almeno due volte all’anno torno a Oristano perché il legame resta forte. Mi piacerebbe fare qualche lavoro in Sardegna, terra che offre spunti altamente interessanti. Però cercherei di raccontarli sotto un altro punto di vista. Se, ad esempio, dovessi fare un servizio sui mamuthones non fotograferei le uscite in pubblico e ciò che è sotto gli occhi di tutti. Racconterei la loro vita di tutti i giorni». Quella senza la maschera, perché dietro uno scatto non c’è solo l’istante da immortalare. C’è una storia fatta di infiniti attimi che arrivano sino a quello fissato dall’obiettivo e che appare immobile.

©RIPRODUZIONE RISERVATA
 

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