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Gigi Riva, l'Isola nell'anima

di Enrico Gaviano
Gigi Riva davanti alla sua foto al museo del Cagliari (foto rosas)
Gigi Riva davanti alla sua foto al museo del Cagliari (foto rosas)

I 74 anni del campione che ha legato la sua vita alla Sardegna

08 novembre 2018
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CAGLIARI. Gigi Riva ha compiuto il 7 novembre 74 anni. Gran parte di questo tempo, 55 anni, lo ha trascorso in Sardegna, diventando un sardo anche lui. Ma quello che più colpisce è che a tantissimi anni dal suo ritiro dal calcio giocato, avvenuto nel 1976, il suo mito resiste, impossibile da scalfire. Riva è un esempio, per tutti. A costruire la leggenda del calciatore hanno contribuito il suo carattere, la sua serietà, il coraggio ma sopratutto la generosità.  

Quel modo di giocare unico, senza mai tirar dietro la gamba. Per questo sono arrivati i gol, lo scudetto, i tre titoli di capocannoniere in serie A, le 35 reti in nazionale che nessuno è riuscito ancora a superare. Ma a Cagliari e in Sardegna, e anche nel resto d’Italia, è un idolo per un semplice motivo: aver rifiutato cifre iperboliche all’inizio degli anni 70 per trasferirsi in uno degli squadroni del nord, Milan, Inter e soprattutto Juventus.

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Pensare che era arrivato in Sardegna nel 1963 e nel primo giorno che mise piede nell’isola aveva deciso che se ne sarebbe andato subito. Invece pian piano cambiò idea. Fu l’affetto dello stadio Amsicora sicuramente.

Ma non solo. Cominciò ad amare l’isola, superando l’iniziale diffidenza e venendo ricambiato. L’amicizia con persone umili, come Martino il pescatore che lo portava nelle battute in barca, fece crescere la sua voglia di Sardegna. L’isola non gli stava più stretta. E a spezzare le ore di monotonia fra un allenamento e l’altro ci pensavano le sigarette e i dischi di Fabrizio De André. Poi, quando proprio non ce la faceva saliva sulla sua Dino Ferrari fiammante e, nella notte, faceva a tutto gas la Cagliari-Oristano: andata e ritorno a tempo di record. Da solo, di nascosto, perché se i dirigenti avessero saputo, sarebbe stato un casino. Ma lui non si è mai fatto scoprire, raccontando questi episodi solo a fine carriera per spiegare la sua grande passione per i motori. E far capire anche quel carattere ribelle che tanta parte ha avuto nelle sue scelte di vita.

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Il calcio? Beh, quello andava benone. Subito la promozione dalla B alla A, la maglia azzurra, i gol. Successi conquistati con la forza di volontà che lo ha sempre contraddistinto. Un esempio per tutti. Mai fuori dalle righe. Nel 1966 Edmondo Fabbri lo portò ai mondiali fuori rosa. Per fare esperienza. Lui zitto. Niente. L’anno dopo pagò il primo tributo alla nazionale, rompendosi una gamba contro il Portogallo. Da quella disavventura e dopo aver sacrificato un’altra gamba (in Austria, nel 1970), sempre con la nazionale, ne uscì più forte di prima.

Per forza i tifosi italiani, di qualsiasi sponda fossero, lo adoravano. Gli applausi fioccavano a San Siro, come all’Olimpico, al San Paolo come al Comunale di Torino. Grandi palcoscenici in cui lui era l’eroe quando vestiva la maglia azzurra, con il Cagliari l’avversario temibile quando il rumore sordo del suo sinistro sul pallone faceva tremare i tifosi di casa.

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A quei campi prestigiosi Riva ha rinunciato per stare in Sardegna, perdendo probabilmente scudetti, coppe e gloria e sicuramente una montagna di quattrini. Boniperti, ad esempio, ogni volta che poteva cercava di convincerlo mettendogli sotto il naso un assegno in bianco. Nulla da fare.

Anche quando è diventato dirigente della nazionale, Riva ha continuato a dare l’esempio, a essere un elemento fondamentale nello spogliatoio azzurro. Se qualche giocatore sembrava nervoso, irrequieto, Marcello Lippi lo spediva a parlare con “Gigi”. E lui con il suo sorriso, con parole dolci ma ferme, riconduceva il “ribelle” sulla strada giusta, smussando gli spigoli pericolosissimi nello spogliatoio.

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A confermare questo ruolo strategico è stato dopo il trionfo del 2006 il capitano azzurro Fabio Cannavaro: «Senza Gigi non avremmo mai vinto il mondiale». L’ultima uscita pubblica a febbraio dello scorso anno per la consegna del Collare d’oro al merito sportivo del Coni. Un altro segnale della grandezza di colui che Brera aveva ribattezzato Rombo di tuono. Al Sant’Elia commozione palpabile e uno striscione indelebile. “Grazie Gigi per aver reso grande questa maglia”.


 

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