La Nuova Sardegna

Luisa, la forza di dire basta dopo 11 anni di umiliazioni

di Daniela Scano
Luisa, la forza di dire basta dopo 11 anni di umiliazioni

Una madre e i suoi tre ragazzi vittime di un marito preda di alcol e slot machine  La rabbia del figlioletto per l’ennesima cattiveria fa maturare la scelta: andar via

25 novembre 2018
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SASSARI. C’è un momento preciso in cui la sopportazione va in frantumi e dici basta. L’istante di Luisa, dopo undici anni di inferno accanto a un compagno che sembrava odiarla, è scattato quando un piccolo uomo di dieci anni ha urlato in faccia all’adulto ubriaco e rabbioso che lo sovrastava la frase «ma ancora non hai capito che mi stai rovinando l’esistenza?». Luisa descrive un piccolo essere pallido e tremante che sostiene lo sguardo dell’uomo che faceva paura a tutti in famiglia. Il piccolo era il figlio di Luisa, mentre l’adulto era suo marito e aveva appena sfregiato l’orgoglio infantile per un meritatissimo dieci in matematica. «Non me ne sbatte un c...», aveva detto facendo volare il quaderno.

Quell’episodio è stata la scossa elettrica che ha riacceso la vita di quattro persone: una madre e tre figli piccoli. «Quel giorno ho capito che la domanda di mio figlio era rivolta a suo padre, ma anche e soprattutto a me. Fino ad allora credevo di avere sopportato tutta la violenza per il bene dei miei figli, per mantenere unita la famiglia, invece li stavo costringendo a vivere riflettendosi nella mia disperazione». Dopo quell’ultima scenata fu anche chiaro di quale maschera i bambini avessero tanta paura, al punto da confidarlo agli assistenti sociali che li seguivano. Non era quella del mamuthone, come credeva la loro mamma. Era il volto del padre trasfigurato dall’odio. Il giorno dopo quello scontro finale, Luisa e i suoi tre bambini se ne sono andati da quella casa. «E loro erano così felici che in macchina saltavano da una parte all’altra. Io avevo preso la patente da pochi mesi, mi sentivo molto insicura alla guida dell’auto che mia madre mi aveva prestato, e faticavo a tenere in carreggiata quell’automobile sballottata da una parte all’altra. Sono stati momenti di felicità pura, i primi e indimenticabili della nostra vita».

Chiariamo subito che questa è una storia a lieto fine. Luisa, nome di fantasia, 43 anni, ha una storia molto dura da raccontare ma adesso è una donna realizzata: ha un lavoro che le piace, tre figli intelligenti e affettuosi che le riempiono l’esistenza, un compagno che presto sposerà e che si commuove mentre ascolta la sua donna raccontare dettagli angosciosi e inediti di una biografia che credeva di conoscere a fondo. «Qualcosa la tieni sempre riservata perché ti vergogni, per discrezione, oppure perché hai voglia di lasciarti tutto alle spalle – spiega lei –. Oggi però non voglio nascondere niente. Oggi, dopo tanti anni, ho deciso di raccontare la mia storia per dare un messaggio positivo alle donne che stanno vivendo la situazione che io ho vissuto. Voglio far capire loro che dal tunnel si può uscire, come ho fatto io, chiedendo aiuto e con un po’ di coraggio».

Sono tanti i brutti ricordi che Luisa tira fuori dal cassetto. «Come quando giravo disperata alle 4 del mattino per le vie del paese, una ragazza disperata in pigiama e con i due figli in fasce nel passeggino. Uscivo come una pazza a cercare quell’uomo che non tornava mai a casa e che si stava giocando la sua vita e la nostra nelle slot machine. Quando lo trovavo gli chiedevo come potesse spendere tutti i soldi in quel modo, mentre a casa non c’era neppure il latte per i nostri piccoli. Lui faceva spallucce, oppure alzava le mani».

Però il ricordo più drammatico è quello dell’arrivo dei carabinieri, una notte d’estate, che le danno la notizia dell’omicidio di suo cognato da parte di suo suocero. «All’inizio si parlò di una lite tra fratelli e il mio ex fu il primo sospettato, poi la dinamica fu chiara – racconta –. Mio suocero e i suoi due figli avevano trascorso la giornata in un bar a giocare alle slot e a bersi i soldi delle vincite. Avevano vinto tanto ed erano quindi completamente ubriachi quando è successa la tragedia, durante una lite mentre rincasavano a bordo dell’auto di mio cognato. Io da quel momento mi sono trasferita a casa di mia suocera, per aiutarla».

I problemi di coppia tra lei e il marito esistevano già ma da quel momento, dice, sgranando gli occhi di un incredibile blu, per lei non c’è più stato un solo giorno sereno. Il gioco d’azzardo, la violenza psicologica e materiale, la denigrazione e l’annullamento sono diventati l’ordinaria amministrazione. «Lui non c’era mai, e quando c’era urlava o insultava. Oppure alzava le mani».

Luisa è stata una donna molto infelice e per due volte è arrivata sull’orlo del baratro. «Volevo farla finita, mi sentivo inutile e stupida. Una fallita che non meritava niente, anzi che meritava le botte e gli insulti e l’indifferenza». L’indifferenza e l’isolamento possono diventare le prigioni dell’anima.

Il matrimonio è durato undici anni di botte, umiliazioni, privazioni nascoste alla famiglia di lei. «A casa non c’erano soldi perché tutti quelli che gli entravano in mano se li giocava alle macchinette – racconta –. Mi vergognavo di raccontare ciò che stavo subendo, però mia madre ha sempre capito e insieme agli altri familiari ha creato una rete di protezione. Quando sono finita in Casa Aurora mi sentivo una privilegiata, perché le altre ospiti del centro antiviolenza non avevano nessuno che si preoccupasse per loro, mentre io avevo mamma e le zie che portavano i dolci ai nipoti e ci colmavano di affetto». Casa Aurora è il centro antiviolenza del Comune di Sassari, che il consorzio di cooperative sociali Andalas gestisce da dieci anni. Luisa è finita nella casa segreta dopo avere tentato il suicidio per sfuggire alla depressione che la stava divorando.

Di quel primo ingresso, la pedagogista Paola Giordo, che assiste le ospiti di Casa Aurora con lo psicologo Agostino Loriga e con un gruppo di volontarie, ricorda invece «una donna positiva, ricca di potenzialità». Luisa si specchia nel ricordo altrui e dice che forse ha ragione Paola. «Questa storia – ammette – mi ha resa più forte».

Dell’uomo che le ha reso la vita un calvario parla con compatimento. «All’inizio era uno a posto – racconta –. Aveva voglia di lavorare e di fare famiglia dopo un percorso in una comunità terapeutica. Anche per questo i miei genitori, soprattutto mio padre, non volevano assolutamente che lo frequentassi. Per metterli di fronte al fatto compiuto decidemmo di fare un figlio.

Mentre preparavamo il matrimonio ebbi un aborto, ma ci sposammo lo stesso». Fu una gravidanza difficile e l’inizio di un calvario. Lei però resisteva. «Volevo a tutti i costi salvare la famiglia».

Così, dopo il soggiorno nel centro antiviolenza, decise di dare una seconda occasione al padre dei sui figli, che diventarono tre. «Ma scoprii quasi subito che non era cambiato niente». Infine ci fu la scena del 10 in matematica del figlio umiliato dal padre. «Quella notte la passai in bianco e al mattino chiamai mia madre. “Mamma, basta non ce la faccio più, me ne vado”. Lei fu chiarissima: «Non voglio fare la pagliaccia. Se te ne vai deve essere per sempre, altrimenti resta lì. Me ne andai»

«Cosa mi sento di dire alle donne che stanno vivendo questa situazione? Intanto che devono aprire gli occhi dalla prima mossa falsa dell’uomo che dice di amarle, ma che le maltratta. Per quanto si possa voler bene a una persona, l’amore non è quello. Chi ti picchia non ti ama e non dobbiamo permettere che la nostra vita venga annullata da persone che non la meritano». Luisa questo l’ha capito guardando suo figlio affrontare il padre come un piccolo uomo pieno di rabbia e di coraggio.

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