La Nuova Sardegna

La star della medicina da Sassari a San Diego

di Silvia Sanna
Manuela Raffatellu
Manuela Raffatellu

Manuela Raffatellu, microbiologa, tra le 50 eccellenze italiane

28 dicembre 2018
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SASSARI. La sua professoressa di chimica e biologia si è scusata per non averle mai dato 10, lei le ha sorriso e l’ha ringraziata: perché se oggi, a 42 anni, è una delle 50 donne italiane più influenti al mondo nel campo delle scienze, lo deve anche alle sue lezioni al liceo classico Azuni di Sassari. «La professoressa Giovanna Fiori mi ha fatto amare la chimica e la biologia, dopo la maturità è stato naturale seguire quella strada», racconta Manuela Raffatellu. Una strada che l’ha portata lontano, in quella che dal 2002 è diventata la sua nuova casa: «Sono partita per gli Stati Uniti con l’idea di rimanerci due anni. Invece sono ancora lì e ho già fatto tre traslochi». L’ultimo un anno fa, in agosto: destinazione l’Università di San Diego, California, una delle più prestigiose al mondo, dove Manuela ha ottenuto la cattedra come professore ordinario. Microbiologa e immunologa, oggi guida una squadra di 6-8 persone tra studenti di dottorato e post-doc, studia, legge, scrive e tiene conferenze in tutto il mondo: la sua agenda è fitta sino a ottobre 2019, alcuni appuntamenti li ha dovuti rinviare al 2020. Una carriera stellare che l’ha portata tra le Inspiring Fifty: le 50 italiane più influenti nella tecnologia secondo Microsoft e Klecha & Co. Non solo: è di pochi giorni fa la nomina di Manuela all’interno dell’Asci, American society for clinical investigations, per i suoi meriti nella ricerca. «È un grande onore anche perché sono l’unica componente con meno di 50 anni». Una storia di successo che inizia a Sassari, l’ombelico del suo mondo, e che Sassari premia nel 2014: Manuela riceve il Candeliere d’oro speciale, il riconoscimento assegnato a chi dà lustro alla città.

L’amore per la medicina. Non è una questione di geni, perché se fosse stato così Manuela Raffatellu oggi non sarebbe una scienziata di fama internazionale ma una brillante insegnante o un funzionario di banca. «Come i miei genitori – racconta – dai quali non ho ereditato l’amore per la medicina ma certamente quello per lo studio e la conoscenza». A 360 gradi: Manuela è brava e ambiziosa ma soprattutto è molto curiosa, adora la chimica e la biologia ma allo stesso tempo legge con passione i classici greci. Ma al momento dell’iscrizione all’Università non ha dubbi: «Scelgo Medicina – dice – e studio con profitto. Mi piace, mi entusiasma in particolare la microbiologia». A 24 anni è già laureata e si guarda intorno. Inizia a insegnare e intanto spedisce il curriculum negli Usa. Due anni dopo, nel 2002, parte per il Texas: Manuela Raffatellu ha 26 anni e fa ragionamenti a breve termine «tra due anni al massimo rientro in Italia, in Sardegna, a casa». Non succederà, se non per le vacanze e per stare con la sua famiglia, i genitori e le due sorelle. Come in questi giorni di Natale: dieci giorni dedicati a parenti e amici «legami forti e indissolubili», prima del ritorno a San Diego e, a gennaio, le conferenze alle università di Berkeley e Stanford.

La ricerca. Dieci anni fa Manuela inizia a specializzarsi nello studio della salmonella e dei meccanismi della risposta immunitaria intestinale durante le infezioni. Lo stesso anno, è il 2008, supera una selezione difficilissima di circa 150 concorrenti e ottiene la cattedra di professore associato all’università di Irvine in California. Succede qualcosa che da queste parti appare sorprendente: Manuela, giovane donna italiana trasferita dall’altra parte del globo, senza padrini ma spinta solo da enorme talento e tenacia, ottiene un importante finanziamento dall’università per allestire il suo laboratorio e scegliere i collaboratori: 1milione e 250mila dollari da spalmare negli anni e totale carta bianca, senza alcun condizionamento. Gli Stati Uniti premiano la passione di questa giovane donna e la fiducia viene ripagata: il nome della professoressa Raffatellu comincia a diventare familiare negli ambienti scientifici, lei viene invitata sempre più spesso a seminari e conferenze per illustrare i risultati dei suoi studi. La passione di Manuela è contagiosa ed è questa una delle cose di cui va più fiera: «Il mio gruppo di lavoro è formato da persone in gamba e motivate ma tutte con caratteristiche diverse alle quali va adeguato il metodo di insegnamento. Il fatto che tutti abbiano ottenuto la specializzazione e molti abbiano aperto propri laboratori mi inorgoglisce moltissimo»

Il nuovo incarico. Le valigie sono sempre pronte perché dietro ogni traguardo ce n’è un altro e un altro ancora. «È questo che impari negli Stati Uniti – racconta Manuela –. Qui è normale fare varie esperienze, girare tra diversi laboratori: ci sono tante opportunità e molta competizione. Per andare avanti bisogna essere motivati e saper accettare anche le sconfitte. Ma se uno è bravo ottiene i risultati. È per questo che chi viene in America non riesce ad andare via: è successo a me e lo stesso accade ai miei collaboratori, perché da nessuna altra parte trovi analoghe possibilità. Nel mio caso dopo il post dottorato avevo ricevuto una proposta a Milano: ma non era molto interessante e avrei ricevuto uno stipendio più basso rispetto a quello che già prendevo qui. Qualche anno dopo mi hanno proposto una cattedra in un’altra università italiana ma non se n’è fatto niente perché lo stesso ateneo si è reso conto di non potermi mettere a disposizione le strumentazioni che utilizzo qui». Poi, un anno fa, la nuova partenza: l’America rinnova la fiducia a Manuela e lei si trasferisce a San Diego, Uc School of medicine. «Vivo in una città meravigliosa, abito a 10 minuti dal mare. Ho colleghi che arrivano da tutto il mondo, più o meno coetanei. Dirigo un gruppo di ricerca, scrivo per riviste scientifiche, ho 66 pubblicazioni». Una vita piena e stimolante che Manuela divide con il suo compagno americano che è anche un collega «e mio supporter, perché la scelta di carriera più importante che una donna possa fare è il proprio partner, è lui la chiave del successo». Un gioco di squadra in cui non esistono gli orari ma contano solo i risultati: «I miei collaboratori decidono in autonomia come organizzare il lavoro e conciliare le esigenze familiari: chi lavora con me deve essere felice altrimenti non produce». E il futuro? Chi lo sa, perché in questa storia di passione e successo non c’è un punto d’arrivo ma solo nuovi traguardi da raggiungere.

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