La Nuova Sardegna

Sassari

Esuli e foibe, Fertilia ricorda la tragedia

di Andrea Massidda
Esuli e foibe, Fertilia ricorda la tragedia

Il racconto degli ultimi testimoni che dopo la guerra lasciarono tutto per ricostruirsi una vita nella città fondata dal duce

11 febbraio 2015
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FERTILIA. I nazisti della Gestapo li trattarono all’improvviso alla stregua di traditori da mandare a morire nei campi di concentramento. Mentre secondo i soldati dell’armata jugoslava al comando del maresciallo Tito non erano altro che ex aguzzini fascisti con i quali regolare finalmente i conti nel modo più sbrigativo: ad esempio facendoli sparire dentro le foibe. Stretti com’erano tra la svastica e la falce col martello, per i 350mila italiani cresciuti nei territori della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia, quelli che seguirono l’armistizio dell’8 settembre 1943 furono anni spaventosi. E al termine della seconda guerra mondiale le cose non cambiarono di molto.

Così chi si salvò dai famigerati voli della morte nelle insenature carsiche non ebbe altra scelta che abbandonare tutto e fuggire verso la madre patria. Che però non fu tenera. Anzi sistemò in silenzio i suoi figli rientrati a casa nei centri di raccolta profughi. Molti di loro poi scelsero di ricominciare la propria vita da capo, anche a Fertilia, la città fondata nel 1936 da Mussolini il cui sviluppo si arrestò subito a causa del conflitto. Per questo la comunità giuliana della borgata algherese ha celebrato insieme alle autorità religiose, civili e militari il ricordo della diaspora.

I pionieri. L’arrivo dei primi esuli risale al 1947. In avanscoperta - dichiaratamente per esplorare la nuova terra - venne mandato il trentaduenne parroco di Orsera don Francesco Dapiran, seguito da alcune barche con a bordo un manipolo di uomini pronto a rimboccarsi le maniche. «Laggiù in Sardegna c’è una città incompiuta che vi attende, occupatela e sarà vostra e di quelli che vi raggiungeranno», è la promessa del governo italiano. Appena superate le falesie di Capo Caccia quegli stessi uomini che con la tipica retorica del tempo un documentario dell’Istituto Luce definisce «moderni ulissidi» scoprono che effettivamente a Fertilia ci sono soltanto una decina di case e una chiesa, alla quale affiancano presto un campanile vagamente ispirato a quello di San Marco, a Venezia.

L’anno zero. Il grande cantiere viene aperto nel giro di pochi giorni. E quando iniziano a sorgere le prime vere abitazioni ecco che arrivano a ruota le famiglie. I camion caricano a Olbia donne e bambini e li trasportano nella Riviera del Corallo, Tra queste persone c’è anche Maria Delcaro, diciannovenne, ma con già alle spalle una storia raccapricciante. È lei stessa, a 86 anni, a rievocarla come se fosse accaduta ieri. «Durante la guerra vivevamo a Pola – racconta –, mio padre era un uomo molto vicino al regime fascista e anche per questo motivo la nostra era una condizione agiata. Poi, però, come si sa, le cose sono cambiate. E da un giorno all’altro fummo costretti a fuggire, con uno dei miei fratelli Piero, di 16 anni, che credevamo fosse stato infoibato».

Maria lo ritroverà, quasi irriconoscibile e pieno di pidocchi, in un campo profughi, dove tuttavia perde la madre, ammalata di nefrite. A Fertilia la sua vita è durissima. «Non posso dimenticare i morsi della fame e la grande miseria che ci circondava», dice con le lacrime agli occhi rivelando che a un certo punto suo padre decise di abbandonarla in Sardegna con le sorelline per cercare fortuna in Australia con i fratelli maschi. «Sparì nel nulla e seppi della sua morte solo per caso: è stato un periodo durissimo che ho superato anche grazie alla grande solidarietà della gente di Alghero».

La memoria negata. Il papà di Marisa Brugna, invece, di politica non sapeva nulla. Viveva a Orsera e faceva il contadino. «Avevamo paura di essere uccisi soltanto perché italiani - dice -, così mia mamma appendeva la foto di Tito in cucina e mio papà, incredulo, la buttava via. Sta bon, gli dicevamo, guarda che qui ci ammazzano». La sua storia di esule è ricordata nel libro “Memoria negata” (Edizioni Condaghes). «La verità - conclude Marisa - è che papà era convinto che lo Stato italiano non avrebbe mai permesso ai soldati di Tito di toglierci tutto ciò che ci eravamo guadagnati con il nostro sudore. E invece la storia disse che aveva torto: non solo ci lasciarono con una valigia , ma la mia famiglia per dieci anni fu costretta a vivere nei campi profughi di Marina di Carrara e di Latina. Eravamo testimoni scomodi anche per i nostri connazionali».

Ritorno dall’Istria. Un caso curioso è quello di Mercedes Solinas e dei suoi fratelli. Sardi di origine, avevano seguito il padre emigrato a Tarvisio, operaio al confine tra la Jugoslavia e l’Italia. «Mai avremmo pensato di ritornare in quest’isola così - racconta - e invece a dieci anni mi ritrovai imbarcata sulla nave per Olbia. Mio papà era sopravvissuto miracolosamente ai tedeschi e paradossalmente in quel momento stava per finire nelle grinfie dell’esercito di Tito. Un incubo».

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