La Nuova Sardegna

Sassari

Vendette nella caserma dei carabinieri, luogotenente nel mirino di sette colleghi

di Daniela Scano
Vendette nella caserma dei carabinieri, luogotenente nel mirino di sette colleghi

Sassari, secondo le accuse della procura i militari della compagnia di Bonorva volevano fargliela pagare perché li aveva sbugiardati

26 aprile 2016
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SASSARI. Ci sarebbero stati un luogotenente dei carabinieri e i suoi familiari, ma anche altri testimoni scomodi, nel mirino dei sette militari della compagnia di Bonorva finiti sotto inchiesta per un presunto piano di vendette private sventato dalla Procura. Stando alla ricostruzione del pm, il gruppo di uomini in divisa progettava di mettere nei guai con false accuse un carabiniere che con la sua relazione di servizio, nell’ottobre del 2014, fece scattare l’inchiesta su un tentato arresto che è stato rubricato dal magistrato come tentato sequestro di persona, falsità ideologica e lesioni personali.

Il retroscena, così come i nomi dei protagonisti, è emerso dalla cortina di riserbo che circonda le indagini preliminari che il sostituto procuratore Giovanni Porcheddu ha chiuso nei giorni scorsi, facendo notificare ai sette militari coinvolti altrettante comunicazioni di garanzia. Indagati per tentato sequestro di persona sono il maresciallo Luca Porceddu, 36 anni, comandante del nucleo radiomobile della compagnia carabinieri di Bonorva; e l’appuntato Fabio Antioco Casula, 40 anni, in servizio nel medesimo nucleo. Rischiano invece una misura di sicurezza, perché secondo il pm Giovanni Porcheddu avrebbero programmato ritorsioni ai danni di alcuni cittadini, cinque tra colleghi e amici dei due principali personaggi della vicenda. Si tratta di Luca Gabelloni, maresciallo e comandante della stazione di Mores; e dei carabinieri Fabrizio Leone, Antonio Galla, Luca De Renzi e Leonardo Salaris.

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Tutti sarebbero stati intercettati mentre progettano posti di blocco per mettere nei guai quello che, a giudicare da una prima lettura degli atti, consideravano un “traditore”. Si tratta di un luogotenente che la sera del 30 ottobre 2014 fu testimone, insieme a una decina di persone, del concitato confronto tra una pattuglia del radiomobile di Bonorva e un cittadino di Pozzomaggiore. Le versioni sull’episodio sono inconciliabili e di certo c’è solo che un passante, dopo essere stato ammanettato a un polso dall’appuntato Casula, venne da lui colpito al volto con un pugno che lo fece sanguinare. Tutto questo davanti a un gruppo di uomini indignati che gridavano «vergogna» perché secondo loro il compaesano non aveva fatto niente per meritare un simile trattamento. L’arresto non venne eseguito.

«Volevamo portarlo in caserma per identificarlo, ma lui rifiutava di seguirci – è in sintesi la tesi dei militari –. L’appuntato ha colpito senza volerlo il soggetto, che si divincolava, causandogli inavvertitamente un taglio con l’anello che portava all’anulare». Diversa la ricostruzione dei fatti contenuta in una relazione di servizio del luogotenente presente alla scena con una decina di compaesani riuniti in un bar per assistere a una partita di calcio in televisione. Quell’atto parla di un tentato arresto arbitrario, smentisce la tesi della colluttazione, accusa il maresciallo e l’appuntato del radiomobile. I due militari hanno scoperto il contenuto della relazione solo nell’ottobre scorso, quando a entrambi è stata notificata la richiesta di sospensione dal servizio. Richiesta che il gip Elisa Marras non ha accolto, al termine di una udienza dove i due, assistiti dall’avvocato Agostinangelo Marras, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere alle domande. In quella fase, i due indagati hanno avuto accesso agli atti raccolti dalla Procura nei loro confronti. Da questo momento i carabinieri del comando provinciale, i quali stavano intercettando il sottufficiale e l’appuntato indagati, avrebbero registrato i progetti criminali dei due principali indagati e dei loro amici. L’idea era di organizzare una serie di posti di blocco per mettere nei guai, con false accuse, il carabiniere che li aveva denunciati, i suoi familiari e i testimoni dell’episodio. Un pericolo concreto, secondo il pm, che ha proceduto come avrebbe fatto per bloccare un gruppo di soggetti socialmente pericolosi. Solo che questa volta gli indagati indossano la divisa.

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