La Nuova Sardegna

Sassari

Violenza sessuale, annullata la condanna del padre imputato: «Vivo per le mie figlie»

di Nadia Cossu
Il padre imputato racconta il suo calvario
Il padre imputato racconta il suo calvario

L'uomo è stato accusato di non aver vigilato sulle persone a cui affidava la figlia quando andava al lavoro. Ma la Corte di cassazione boccia la sentenza di condanna della corte d’appello: «Frutto di un pregiudizio razziale e culturale»

08 marzo 2017
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SASSARI. Ora la figlia più grande è in seconda superiore, la piccola in terza media. Quando vedono il padre – due volte al mese durante incontri “protetti” – gli raccontano i loro desideri, i progetti, «ma anche semplicemente cosa hanno fatto a scuola» aggiunge lui. Gli dicono soprattutto che vorrebbero rivederlo presto a casa. «La grande sogna di lavorare in un aeroporto, negli Stati Uniti. L’altra è ancora piccola per pensare al futuro...». Gli occhi del 43enne marocchino – coimputato di violenza sessuale nei confronti della figlia di 4 anni per non aver vigilato sulla persona cui la affidava quando andava a lavoro – diventano improvvisamente lucidi. Un pianto soffocato che questo padre arrivato in un paese del Sassarese quasi trent’anni fa (dove tutti gli volevano un gran bene tanto da avviare una raccolta di firme quando venne arrestato) non riesce a liberare. «Io ho fiducia nella giustizia e anche se questa brutta vicenda dovesse concludersi al meglio, considerato che la Cassazione ha detto che contro di me non c’è alcuna prova, nulla potrà tornare come prima».

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La storia. Gli agenti federali dell’Fbi nel 2011 approdano in un paese in provincia di Sassari. A portarli fino alla Sardegna sono le indagini su un traffico internazionale di materiale pedopornografico. E arrivano in particolare a casa di un 41enne informatico che vive su una sedia a rotelle. Nel suo pc vengono trovate 32.276 immagini e 1057 video che mostrano bambine nude. Uno dei filmati ne ritrae una che viene spogliata e poi baciata dall’uomo. Per questi fatti viene arrestato. In primo grado viene condannato a 8 anni, in appello a 7 anni e 7 mesi. Lo scorso anno la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso dei difensori e la condanna è diventata definitiva. Una delle vittime di questa rete di maniaci del sesso con minori è una bambina di 4 anni. E a finire nei guai, oltre al 41enne tetraplegico, è purtroppo anche il padre della piccola.

Il calvario. Tra il 2010 e il 2016 l’uomo, di nazionalità marocchina ma da tempo perfettamente integrato in un paese della provincia di Sassari, è stato arrestato, condannato in primo grado a 5 anni e in secondo a 4 anni e 4 mesi. Fino a quando la Suprema corte – accogliendo il ricorso dell’avvocato difensore Giuseppe Onorato – ha annullato la sentenza di condanna con rinvio ad altra sezione della corte d’appello di Cagliari.

La Cassazione. Le motivazioni depositate alcuni giorni fa sono durissime. La Cassazione ha infatti ritenuto «affetta da vizio di manifesta illogicità la motivazione della corte d’appello di Cagliari» considerandola «frutto di smaccato pregiudizio di tipo razziale e culturale». E il “pregiudizio” di cui parlano i giudici di Roma si riferisce in particolare a un fatto. Il padre della piccola sosteneva di esser costretto a lasciare la bambina a casa di un’anziana signora che conosceva da tanto tempo perché doveva lavorare insieme alla moglie come ambulante. Versione alla quale i giudici di secondo grado non avevano evidentemente creduto. «Sorprende non poco – scrive oggi la Cassazione nelle sue motivazioni – la categorica esclusione della Corte di merito circa la possibilità che la mamma della minore e moglie dell’imputato lo potesse accompagnare nella sua attività lavorativa perché contraria alle regole musulmane che vogliono che la donna, per volontà dell’uomo, non lavori. Non va dimenticato che la famiglia marocchina viveva in Italia da tempo sicché poteva ben accadere che prevalesse l’esigenza lavorativa, frutto di una integrazione nei costumi sociali occidentali, rispetto alle tradizioni musulmane». Da qui traggono “lo smaccato pregiudizio razziale e culturale”. E non è che uno dei rilievi mossi ai giudici di secondo grado.

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Il racconto del padre. Lui, la sua piccola figlia di 4 anni la portava a casa di quella donna di cui si fidava. «La lasciavo a lei perché io e mia moglie ci spostavamo dal paese per lavoro – racconta oggi con un filo di voce – Era sempre gentile con noi e faceva spesso dei regali alla nostra bambina. Il figlio disabile lo conoscevo ugualmente, gli avevo portato il computer dell’altra mia figlia perché non funzionava. Mi faceva anche tenerezza su quella sedia a rotelle. Mai avrei immaginato che fosse coinvolto in cose simili». Gli investigatori quando sequestrarono il pc della figlia più grande, a caccia di materiale compromettente, non trovarono neppure una foto pornografica di donne adulte. «Fino al giorno dell’arresto nemmeno sapevo cosa volesse dire la parola “pedofilia”» spiega. Poi l’amara constatazione: «Se anche alla fine dovessi vincere non sarà più la stessa cosa. Ho sempre pensato che le uniche ragioni per le quali siamo a questo mondo sono la famiglia e i figli. Io so qual è la verità. Lo so io e lo sa Dio. Purtroppo, però, non sono e non sarò più in grado di gioire delle cose belle che la vita vorrà riservarmi. Sono diventato un cadavere che cammina».

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